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Affermazioni di un futuro padre come: “siamo incinta”, non suonano come un modo per dichiarare la propria partecipazione, ma come appropriazione culturale.
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Durante una seduta Ginevra mi racconterà di questo episodio e di come la porti a fare considerazioni tristi ma realistiche circa il futuro di questo rapporto.
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Il primo giorno del corso era finalmente arrivato: quante domande, quanta voglia di confronto che avevamo!
Varchiamo la soglia del consultorio, ci accomodiamo. Vediamo molte pance, tante pance quante sedie disposte in cerchio e nessun futuro padre (tutte le madri presenti erano parte di una coppia eterosessuale).
Il mio compagno ed io ci guardiamo interdetti ed un attimo dopo ci sentiamo investiti dallo sguardo stupito dell’ostetrica organizzatrice del gruppo che dice: “Anche lei?”, rivolgendosi a quel padre imprevisto con sguardo irritato.
Imprevisto ed inopportuno, così si sentì quel futuro padre. In quel primo appuntamento l’ostetrica ci tenne a specificare quanto fosse importante fin da subito l’isolamento della diade madre-bambino e di come la funzione paterna consistesse - in questa fase - nella protezione della diade dalle incursioni esterne (nonni, lavoro, società) affinché la madre potesse occuparsi - individualmente ed esclusivamente -del nuovo nato. Ne uscimmo distrutti.
Questo episodio mi è tornato in mente quando un paziente, alcuni anni dopo, iniziò il colloquio dicendo: “Mio fratello ha partorito!”
Da una parte uomini imprevisti in un corso preparto, dall’altra uomini che partoriscono. Mi è sembrato che parlassero di una medesima questione strattonata tra antinomie solo apparentemente non integrabili.
In taluni contesti, affermazioni di un futuro padre come queste: “siamo incinta” o “abbiamo partorito”, non suonano come un modo per dichiarare la propria partecipazione (evidentemente imprevista) all’evento, ma come appropriazione culturale. Di che si tratta?
Si fa riferimento ad un costrutto – cultural appropriation – del quale non esiste una definizione universalmente riconosciuta come valida. Siamo dentro la cultura anglosassone e la serietà con cui si dibatte della questione è talvolta incomprensibile ad uno sguardo europeo. Per comprendere davvero il problema bisogna entrare nella prospettiva anglosassone ed in particolare quella dei paesi che in origine erano colonie e dove i bianchi conquistatori hanno stabilito una supremazia culturale.
L’Oxford Dictionary ne parla così:
“L’adozione non riconosciuta o inappropriata dei costumi, delle pratiche, delle idee di una da parte di membri di un’altra comunità tipicamente più dominante”.
I due elementi che colpiscono la mia attenzione sono il non riconoscimento e il dominio. Le due parole insieme segnano la traiettoria di una relazione fondata sul potere tra due sistemi di appartenenza ove solo uno ha la meglio sull’altro. Nel non riconoscimento risiede l’assenza del “permesso” di chi detiene il possesso dell’oggetto indebitamente sottratto. Nell’appropriazione senza permesso risiede l’esibizione del potere. Il riferimento implicito è alla dinamica del possesso.
Tornando ai padri partorienti, di cosa ci parla questa affermazione? Perché si parla di appropriazione? E tale affermazione parla del problema o da dentro il problema?
Il fenomeno è quello della presenza sempre più numerosa di padri che desiderano prendersi cura dei figli. Questi padri non hanno grandi riferimenti culturali, non hanno una tradizione di paternità accudente cui rifarsi. Come tutti noi, sono figli di una cultura fortemente patriarcale. In questa cultura, l’esperienza dell’accudimento del nuovo nato, in particolar modo nella fase di addomesticamento alla vita extrauterina – chiamata esogestazione, ma anche oltre- è storicamente presieduta dalle madri. Le madri sanno, le madri fanno. Parliamo di una funzione legittimatasi negli anni attraverso il modello della famiglia nucleare teorizzata da Parsons, conseguente alla divisione del lavoro nelle società industriali: lavoro domestico e di cura femminile non remunerato da una parte, lavoro maschile remunerato e in società dall’altra. Questo modello è in crisi dagli anni ’50 e con esso il modello di società fondato sull’autorità. Tuttavia, bisogna testimoniare come tale visione abbia dominato lo sviluppo delle politiche di welfare, fortemente appoggiate sulla famiglia come pilastro fondamentale e sulle donne nella propria tradizionale funzione di cura. La psicologia ha sostenuto tale prassi con proposte che delineavano l’insostituibilità della madre nello sviluppo del bambino - si pensi agli studi di Winnicott, Spitz, Bowlby-, attribuendo al padre una funzione secondaria (come ci spiegava, a suo modo, l’ostetrica stupita e irritata della presenza di un padre al corso di accompagnamento alla nascita). Si delinea il campo e con esso il vissuto di possesso. Da una parte la madre che non ha potere sociale ma ha potere dentro la famiglia e sul nuovo nato, dall’altra il padre che desidera occuparsi del nuovo nato e superare la secolare esclusione dalla funzione di cura e accudimento.
Di qui l’appropriazione culturale, il furto a danno di altri, anzi, di altre.
L’esclusività della relazione madre-bambino e l’esclusione dei padri dalla diade, oltre a rappresentare motivo di conflitto all’interno della coppia e di continua negoziazione circa il possesso del nuovo nato, è anche uno degli organizzatori della dinamica invidiosa: il padre invidia la madre per l’esclusività della relazione con il figlio ed invidia il figlio per l’esclusività della relazione con la madre; d’altra parte la madre invidia il padre perché, con il suo non essere previsto – nella diade così come nel corso preparto-, è escluso dall’obbligo sociale all’accudimento familiare e libero di investire nelle cose della società. C’è da dire che alla base dell’invidia, prima del desiderio di possedere ciò da cui ci si sente esclusi, c’è la valorizzazione dell’oggetto. Mettere a fuoco questo aspetto, può fare recuperare le risorse presenti in questi cambiamenti di ruolo, nella società, nella coppia e nella famiglia, senza trascinarsi nella dinamica agita del possesso che, come unico modo per realizzarsi, deve distruggere ciò che valorizza.
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