Soffro lo stress

Soffro lo stress

“Soffro lo stress, soffro lo stress, sono stanco e fuori forma, suono in una boyband, ci deve essere un errore”

Era l’estate del 2001 e la band dei Velvet (meteora nel panorama musicale italiano) pubblica la hit che la rese famosa, un testo ironico e leggero che giocava con i miti estetici e mediatici legati alle boyband.
L’immaginario delle boyband era all’epoca costruito attorno alla vitalità giovanile, a modelli estetici preconfezionati, attraverso i quali l’industria musicale proponeva una visione del maschile incentrata sul ragazzo giovane e bello, spigliato, pronto a conquistare il mondo a suon di jeans sdruciti, magliette attillate e camicie aperte.
I Velvet ribaltano i canoni, giocando sul paradosso strumentale: ad una musica frivola e tipicamente estiva associano un testo che parla di vite stressanti, corpi fuori forma, fiato corto. Ci dev’essere un errore, la loro è una boyband sui generis.

La canzone dei Velvet ebbe un grande effetto, quello di trasporre su un piano di senso comune un costrutto che nasceva all’interno della ricerca scientifica. Il concetto di stress ed il rapporto che ha con il linguaggio quotidiano sono certamente precedenti, ma il successo dei Velvet a qualche livello lo sdoganarono ulteriormente.

Come successo anche con il concetto di resilienza, quello di stress deriva da un’appropriazione da parte della ricerca psicologica di un costrutto elaborato all’interno della fisica dei materiali, in questo caso dalla metallurgia.
Lo stress indicava gli effetti che grandi pressioni determinano sui metalli. A partire dalla metà degli anni ‘30, nel campo degli studi fisiologici, prima Cannon e poi Seyle cominciarono a pensare che lo stress potesse essere utile per comprendere il funzionamento psichico e corporeo dell’essere umano. Di fronte a pressioni esterne o interne (ad esempio la rappresentazione interna di qualcosa percepito come pericoloso), si attivano una serie di reazioni fisiologiche che predispongono l’organismo ad affrontare una minaccia. Questa attivazione richiede un grande dispendio di energie psico-fisiche, motivo per il quale sentirsi stressati con il tempo venne sempre più associato al vissuto di essere stanchi e demotivati.

Negli anni ‘70, il concetto di stress ebbe così tanto successo che diversi ricercatori tentarono di assegnare dei punteggi, in apposite scale, agli eventi di vita stressanti che gli individui affrontano nella propria vita. Gli eventi non sono più solo quelli legati ad un vissuto di pericolo, ma anche di perdita e instabilità. Così, Holmes e Rahe, oppure Paykel, identificarono nella morte di un figlio, di un coniuge, nella malattia di un parente stretto, nel tradimento del partner, ma anche nel trasloco o nel trasferimento in un’altra città, eventi comuni con alti punteggi associati allo stress. Naturalmente, più gli eventi si verificano in periodi ravvicinati, più il livello di stress sarà elevato nel soggetto. 

Nel corso del tempo, la ricerca psicologica e scientifica ha declinato in modo più ricco il concetto di stress, identificandolo come costrutto che non ha esclusivamente connotazioni negative. Al distress (la versione “negativa” dello stress, quella che genera in noi sentimenti di ansia e preoccupazione, disagio psicofisico e diminuzione della produttività) è stato accompagnato l’eustress, quella condizione che attiva il nostro organismo e la nostra mente per raggiungere obiettivi sfidanti, aumentando la concentrazione, l’attenzione e la motivazione e migliorando la produttività. La valenza dello stress dipende da caratteristiche individuali, ma anche dal modo in cui l’ambiente supporta o favorisce la percezione positiva del contesto.

Oggi lo stress è entrato pienamente nel linguaggio comune ed i motivi che sono in grado di produrlo sono sempre meno “eccezionali”. In linea generale, prevale una connotazione negativa legata allo stress.
Pensate a quante volte il vostro medico di base, in assenza di “prove” di malattie mediche conclamate, ha attribuito i sintomi allo stress (la stanchezza cronica, l’insonnia, la perdita di appetito, l’umore basso, etc.).

“E’ colpa dello stress” è diventata una formula passepartout. Ed infatti su internet proliferano gli articoli che prescrivono comportamenti che sono chiaramente “di buon senso”, così saggi e utili a priori che non differiscono molto dai consigli della nonna: 

  • Evita alcol e fumo
  • Segui un’alimentazione sana
  • Dormi di più e fai attenzione alla qualità del sonno
  • Dedica del tempo a te stesso
  • Stacca dal lavoro, ogni volta che puoi: fai delle pause, viaggia
  • Utilizza tecniche di rilassamento (yoga, meditazione, training autogeno)

Questi suggerimenti sono francamente salutari, nel senso che la medicina odierna intende. Qui infatti si può comprendere come lo stress sia passato, nel linguaggio comune, ma anche in parte della divulgazione medica, da sindrome specifica ad una proposta culturale che riguarda il modo in cui la medicina stessa rappresenta la salute mentale.
Lo stress, utilizzato come concetto vago, produce risposte normative. E’ molto interessante notare che più il concetto è disancorato dai contesti, più le prescrizioni sono stringenti, concrete e dogmatiche.
La proposta culturale è che i sintomi (stanchezza, assenza di motivazioni, etc.) siano segnali che riguardano lo stile di vita dell’individuo. Deriverebbero dunque da comportamenti insalubri (compreso l’eccesso di lavoro) che richiedono un aggiustamento verso comportamenti più salutari. In questa ottica manca completamente una riflessione sullo stress come vissuto emozionale.

Se lo stress è inteso come un dato di fatto, l’unica risposta possibile è prescrivere interventi di modifica del comportamento quotidiano.
Esiste però anche un altro modo di leggere lo stress, intendendo la fatica e la mancanza di energie mentali come vissuti che richiedono un approfondimento.

Non credo che il costrutto di stress sia inutile, al contrario. Sto immaginando la possibilità di pensare allo stress come proposta relazionale, sia con i propri contesti di vita, sia e soprattutto nei confronti del medico o dello psicologo. Perché ciò avvenga, tuttavia, lo stress deve essere inteso come vissuto, cioè come emozione che richiede di essere interpretata per capire come l’individuo vive il rapporto con i contesti in cui lavora e vive.  

Di recente, durante una conferenza, il prof. Vincenzo Caretti, psicoterapeuta esperto di Teoria Polivagale, ha detto: “Ormai si parla sempre di stress, ma lo stress da solo non significa nulla. Andiamo piuttosto a vedere quali sono le memorie traumatiche che si celano dietro la stanchezza cronica e che si esprimono nel corpo”.

Possiamo leggere dunque lo stress non come origine dei sintomi, quanto come un modo per interpretare la richiesta che la persona rivolge al medico o allo psicologo. Una richiesta che, se analizzata, diventa domanda di conoscenza rispetto al proprio mondo interno, ma anche - e forse in modo più rilevante - rispetto al modo in cui la persona vive le relazioni con il proprio contesto di lavoro, con l’altro, con la propria famiglia. In altre parole, il modo in cui la persona dà senso, attraverso le emozioni, al mondo in cui vive.  

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