A sentirlo parlare ti gira la testa: bridge, circolo del golf, regate, yacht. Non esce con gli amici, lui va ad eventi. Seconde, terze e quarte case ospitano lui e le feste che organizza nella capitale. Un brunch nella casa al mare, un aperitivo sulla terrazza vista mozzafiato. Vive nel centro di Roma, nel lusso più spinto e guardandomi le Stan Smith ai piedi mi domando: come ci è finito nel mio studio?
Riccardo è un imprenditore di successo nel mondo della moda, vive e lavora in quel crocevia tra spettacolo, politica e design. Mi dice che è un uomo molto popolare, piace alle donne, ha molti amici, i suoi compleanni sono grandi party di gente che conta. È diventato ciò che desiderava diventare, ma a che costo? Racconta che la sua vita amorosa non è altrettanto brillante. Una serie di insuccessi sentimentali si susseguono. Ha la sensazione di sabotare le relazioni non appena diventano importanti. Diventa rozzo e scortese, si sente umiliato, protesta e diventa a sua volta umiliante e le storie, così come sono cominciate, finiscono.
Mi racconta che la sua famiglia è sfacciatamente ricca, ma non da sempre.
Sia la madre che il padre provengono dalla provincia di una città abruzzese. La loro provenienza culturale è agricola. Le reciproche famiglie possedevano dei terreni coltivati e dai quali traevano grandi quantità di ortaggi venduti ai mercati delle città limitrofe. Si spostano entrambi a Roma per cercare fortuna e lì nasce l’amore. La madre una casalinga, il padre un imprenditore nel mondo dell’edilizia. Negli anni ’80 una grande impennata del business portò la famiglia a cambiare stile di vita. Come sedotti dalle apparenti infinite possibilità che il denaro sembrava offrire, si trasferiscono in centro per consentire ai figli di frequentare contesti “migliori”. Riccardo e d il fratello divengo strumenti del posizionamento sociale familiare. Da ragazzo non si sentiva a proprio agio in queste grandi ville di amici con piscina. Sentiva una differenza tra sé, la propria cultura d’appartenenza ed il mondo in cui era stato catapultato. Questa differenza spesso veniva verticalizzata e si trasformava in dislivello tra chi sta sopra e chi sta sotto. Voleva assomigliare ai suoi amici e si impegnò per farlo. La sua ricchezza materiale, però, gli pareva appoggiata sul nulla, “immeritata”, mi diceva. La sua famiglia era “arricchita”, il denaro posseduto non aveva come controparte altrettanta cultura, eleganza e competenza a stare nel mondo. Più volte mi ha raccontato con disgusto l’immagine della madre mentre mangiava una coscetta di pollo, rosicchiandola rumorosamente e avidamente, senza lasciare nulla. Su questo disgusto ci siamo fermati.
L’emozionalità del disgusto, come tutte le emozioni, può essere trattata da due vertici: come esito di uno stimolo o come risultante di una rappresentazione condivisa di un elemento della realtà. Seguiremo la seconda strada - quella sociocostruzionista - per comprendere qualcosa di quanto stia vivendo Riccardo.
Il disgusto è raccontato contingentemente alla rievocazione dell’avidità della madre durante il pasto. Per Riccardo mangiare avidamente rappresenta la fame dei poveri, i “morti di fame”, mi dice. I poveri ed i ricchi sono una delle prime differenze sociale con cui Riccardo ha imparato a fare i conti. Se il mondo è diviso tra chi ha e chi non ha, meglio stare dalla prima parte. Ma l’essere poveri o ricchi, sembra dire Riccardo, non ha solo a che vedere con ciò che possiedi ma soprattutto con ciò a cui ti senti di appartenere e con ciò che senti di essere. Lo psicoanalista Renzo Carli in uno dei suoi ultimi contributi scrive:
“Quando si prova disgusto, la dinamica emozionale dell’appartenenza viene portata ai suoi limiti estremi e senza alcuna potenziale reversibilità. Il disgusto sancisce una sorta di appartenenza unica, dalla quale viene escluso tutto ciò che, provocando disgusto, per lo stesso motivo perde quelle caratteristiche che rendono possibile una condivisione d’appartenenza. La storia umana è costellata, nei secoli, di questo inquietante fenomeno: una volta espulsi dal proprio sistema d’appartenenza, infiniti aspetti della realtà relazionale possono assumere connotazioni rivoltanti e suscitare reazioni violentissime. L’“altro”, se l’emozione del disgusto di cui è oggetto lo depriva di un’appartenenza condivisa, diviene qualcosa su cui si può infierire, da eliminare.”
Riccardo per potersi sentire parte di quel contesto elitario che tanto avevano desiderato i suoi genitori, ha dovuto farli fuori. Eliminare, degradandoli, la possibilità di riconoscersi parte di una stessa cosa.
Questa esperienza parricida e matricida, dicevamo, ha avuto un costo, come tutte le espressioni violente del potere: provare disgusto ne è un esempio. Se la socialità di Riccardo lo vedeva in posizioni autoritarie e sprezzanti, nell’intimità la situazione si ribaltava. Da soggetto del disgusto ad oggetto del disgusto: Riccardo costruiva relazioni fortemente degradanti, dove reciprocità e amore non potevano entrare. La dinamica del disgusto è circolare e non conosce differenze tra mittente e destinatario: costruisce relazioni fondate sul potere dove solo uno ha legittimità di esistere. Scegliere di rivolgersi ad uno studio professionale geograficamente e culturalmente fuori dai suoi contesti di appartenenza lo ha fatto sentire al riparo da questo rischio e libero di esplorare. Allargando il fuoco, potremmo dire che questa tendenza a trasformare chi non è come te, o non la pensa come te in oggetto degradato e non degno di essere considerato, è un elemento culturale che sta affermandosi con sempre più vigore negli ultimi anni. Un revival di sovranismi nel mondo che escludono ogni esplorazione conoscitiva del contesto con il quale interagiamo.
Nessuna curiosità, nessuna apertura alla diversità e al cambiamento. Reclutare consenso esercitando disgusto verso l’avversario è il modus operandi: razzismo, omolesbotransfobia, antimeridionalismo, abilismo, solo alcuni dei fenomeni culturali che si servono della dinamica del disgusto per incitare alla violenza.