Era il 2010 e stavo vivendo le ultime fasi del mio percorso universitario, prima della laurea che avrebbe sancito la fine di quel pezzo di giovinezza ancora in gran parte priva di responsabilità adulte, per addentrarmi nel mondo del lavoro, che osservavo con ostilità e preoccupazione.
In quel periodo, come ogni universitario che si rispetti, uscivo quasi tutte le sere per incontrare amici e colleghi nei classici quartieri della movida della mia città. Erano serate intense di confronto al limite del filosofico, condite da panini estremamente unti, vino di qualità discutibile e jam session musicali improvvisate.
Negli ultimi mesi prima della laurea, tuttavia, nacque all’interno del mio gruppo di amici una frangia avanguardista che cominciava a vivere con malessere quello stile di vita.
In particolare, Alessia, fuorisede torinese, insinuò il dubbio che quella socialità frenetica avesse un carattere compulsivo. Bisogna davvero incontrare persone diverse ogni sera, andare a ballare, socializzare a tutti i costi? Non è piuttosto una maschera per nascondere un desiderio inconfessabile di piacere agli altri, di presenziare per essere accettati dal gruppo?
All’epoca i social network erano appena usciti e noi eravamo i pionieri che facevano goffamente i primi passi nell’esplorazione di una terra vergine, di cui ancora non capivamo bene codici, usi e costumi.
Il feed personale non era ancora intasato da inserzioni pubblicitarie, corsi di marketing su come comunicare efficacemente online, come promuoversi o come incontrare il partner.
Nulla era irregimentato e le regole le definivamo noi di volta in volta, con una strana sensazione di confusione che pervadeva i nostri status.
Tutti noi utilizzavamo Facebook, vedendolo come una strana innovazione, comprendendone le potenzialità illimitate, ma verso il quale ci sforzavamo di mostrare indifferenza o al limite ironica curiosità, senza prenderci troppo sul serio.
Gradualmente però la situazione cambiò. Rileggere oggi i nostri status del 2010 ci imbarazza e allo stesso tempo ci inorgoglisce. Ci imbarazza per l’evidente uso artigianale del mezzo. Ci inorgoglisce perché eravamo completamente insensibili al people pleasing, cioè al bisogno di mostrare la versione più affascinante di noi in ogni contesto per piacere agli altri. Quello che avvertivamo come un obbligo sociale vincolante nel mondo esterno e “reale”, era completamente assente in ciò che scrivevamo sui social network.
Di recente, l’influencer Giorgia Soleri, che da anni si batte per la sensibilizzazione verso diverse condizioni che causano sofferenza, dall’endometriosi al malessere psicologico, ha parlato proprio dell’ossessione di piacere a tutti, del people pleasing amplificato dall’uso odierno dei social network, ampiamente incentrati su reputazione e immagine, evidenziandone le conseguenze negative sulla propria autostima:
“L'imperativo di dovere bellezza al mondo. E non importa che tu stia male, sotto antidolorifici devastanti, con due ore di sonno addosso: sforzati di essere bella, di aderire agli standard il più possibile. Perché è questo il tuo compito e dovrebbe essere il tuo massimo desiderio".
La Soleri utilizza il sarcasmo per sottolineare un fenomeno in crescita, che influenza il benessere psico-fisico di molte persone che cercano approvazione attraverso i social network. L’aberrazione, infatti, si nasconde dietro quel compito che diventa desiderio indotto.
Il desiderio di compiacere gli altri per essere accettati non è ovviamente un esito della tecnologia. Esiste da sempre, almeno da quando esiste la società umana.
I social network, semmai, amplificando l’esposizione di ciascuno di noi - ancor più di chi lavora attraverso essi - hanno permesso anche di sospendere il flusso compulsivo e cominciare a sviluppare un pensiero su cosa voglia dire legare la propria autostima alla ricerca del consenso altrui.
L’aspetto più interessante è l’uso ironico che la Soleri fa del termine desiderio. Probabilmente ancor prima di comprendere l’ossessione per l’apparire a tutti i costi, dovremmo interrogarci su cosa desideriamo e che significhi desiderare qualcosa.
Il desiderio, infatti, richiede una rinuncia all’agito compulsivo ed un pensiero su quali sono le emozioni che proviamo e cosa esse possono suggerire rispetto alle nostre vite, ormai fatte di un intreccio inestricabile di online e offline.
Arriveremo forse a scoprire che i social network non sono in questo affatto differenti dal contesto sociale “reale” (faccio fatica ad usare questo termine, sentendo il bisogno di virgolettarlo, perché ne percepisco ormai i limiti concettuali, soprattutto se usato a confronto con il “virtuale”).
L’attività compulsiva di diffusione di contenuti sulla rete nella ricerca dell’approvazione altrui, non è diversa da quello che facevamo nel 2010 durante il periodo universitario, quando ci sentivamo quasi obbligati ad uscire ogni sera.
Oggi sento gratitudine nei confronti delle parole di Alessia, che comprese sin dall’inizio quanto di non espresso, né pensato, c’era dietro alla nostra ricerca di socialità. Eravamo dei people pleaser ante-litteram.