Lo dice la Scienza!

Lo dice la Scienza!

Chi mangia arrosticini abruzzesi è più intelligente. Lo dice la Scienza!”. Respiro profondamente. La voglia di prendere il portatile e scagliarlo dalla finestra è tanta, ma resisto. Il mio notebook non ha nessuna colpa e poi mi serve per scrivere questa newsletter. Mi alzo, guardo fuori dalla finestra, inspiro quanto più smog possibile e riordino le idee.

Nel 2019 ero a Sarzana al Festival della Mente. Ci ero andato per soddisfare una delle mie passioni più scabrose, assistere dal vivo ad una conferenza di Alessandro Barbero. Quell’edizione del Festival fu fortunata. C’era anche Dario Bressanini, chimico e divulgatore scientifico che si occupa, fra le altre cose, di alimentazione. Il suo speech fu molto divertente, perché tentava di smontare tutti i miti sulle diete, mostrando l’enorme differenza fra ricerca scientifica e cattiva divulgazione. Come esempio prese un articoletto che ebbe molto successo qualche anno fa, nel quale si sosteneva che bere Mojito facesse bene alla salute. Bressanini ci mostrò l’intero percorso a ritroso che lo portò a scoprire l’origine di quella fake news:


decine di giornali italiani online, anche di alto livello, diffusero l’articolo senza alcun riferimento bibliografico;
il testo dell’articolo era sempre lo stesso, i giornali si erano copiati e incollati a vicenda;
nel testo c’erano strane espressioni, che emergevano dall’uso di un italiano atipico, non scorrevole; queste frasi sembravano tradotte in fretta e furia con Google Translate da articoli inglesi;
Bressanini riesce a trovare in rete i testi in lingua inglese originari, diffusi da riviste di basso livello;

alla fine della ricerca, Bressanini scopre che la notizia del Mojito come panacea di tutti i mali era un pesce d’aprile, scritto con intento goliardico e finito per fare il giro del mondo come notizia apparentemente scientifica.

La divulgazione della scienza è un ambito in continua espansione e che negli ultimi 15 anni si è sviluppato moltissimo in ogni disciplina. Divulgare, però, non è compito semplice. Metà del lavoro è di debunking, cioè passato a sfatare miti e false informazioni entrate da tempo nell’immaginario collettivo.
Telmo Pievani, straordinario divulgatore, filosofo della scienza ed esperto della teoria darwiniana, da anni prova a smontare le fantasie che la nostra società ha costruito attorno alle idee di Charles Darwin.
La più frequente? La lotta per la sopravvivenza si fonda sulla legge del più forte. Questa frase è erronea per due motivi. Anzitutto in biologia evoluzionistica non si parla di leggi, cioè di qualcosa di stabilito una volta per tutte. Si parla semmai di processi evolutivi e di adattamenti. In secondo luogo, Darwin non ha mai parlato del successo del più forte. In Natura sopravvive chi si adatta meglio al contesto. L’essere umano è la prova vivente di questa differenza.
Fra l’altro Darwin non amava nemmeno dire che in Natura vince il più adatto. Quel superlativo rappresentava tutto ciò che voleva mettere in discussione con la sua teoria. Il principale ostacolo del suo tempo non erano il creazionismo o la religione, come molti sono portati a pensare. Era piuttosto il pensiero teleologico, cioè l’idea molto diffusa all’epoca - anche oggi non è che sia proprio minoritaria - che la Natura abbia una finalità ultima e tenda al progresso continuo verso uno stato di perfezione. L’essere umano sarebbe, in quest’ottica, il prodotto naturale definitivo, la macchina infallibile, frutto della straordinaria capacità della Natura di progredire verso la migliore versione di sé stessa. Una visione tecnologica, oltre che teleologica.
Darwin, invece, sapeva benissimo che la natura è caotica, non tende verso nessuno stadio finale, procede per continui adattamenti e riorganizzazioni, è intrisa di elementi inutili e senza funzione. Per lo stesso motivo non amava nemmeno il concetto di selezione naturale, perché prevederebbe l’esistenza di un ente in grado di selezionare, cioè di operare scelte consapevoli volte a perfezionare la vita. Nonostante ciò, dopo anni di tentativi, si arrese ai limiti del linguaggio ed accettò di usare l’espressione selezione naturale per farsi capire dal resto della comunità scientifica. Proprio le lotte che Darwin intraprese con la lingua dimostrano quanto sia complesso per uno scienziato divulgare le proprie ricerche e intuizioni, senza incappare nella forza seduttiva dei miti che sono alla base del nostro immaginario culturale.

Anche per la Psicologia vale lo stesso principio. Vi faccio un esempio. 
Qualche anno fa uscirono diversi articoli che titolavano: le persone più intelligenti bevono più alcol (lo dice la scienza!). Anzitutto è da notare che questi titoli stimolano nel lettore l’idea che vi sia un rapporto di causa-effetto. L’essere intelligenti causa un maggiore consumo di alcol. In realtà si parla sempre di correlazione: due fenomeni risultano statisticamente legati, si verificano insieme. Non sappiamo se però l’uno sia la causa dell’altro.
Se in una ricerca riscontrassi una relazione tra il fare sport all’aperto e l’insorgenza di tumori della pelle, potrei dire con certezza che lo sport causi il tumore? Assolutamente no. Ci potrebbe essere un terzo fattore che lega i due fenomeni: ad esempio, l’esposizione più frequente alla luce solare che caratterizza l’attività sportiva all’aperto potrebbe determinare la maggior frequenza di tumori.

Ho voluto allora fare come Bressanini e cercare articoli inglesi che parlassero della correlazione fra intelligenza e consumo di alcolici. Ce ne sono molti, ma in particolare mi ha colpito questo del Time, che trovo esemplare per comprendere in che modo la divulgazione scientifica sia piena di insidie.  

Nell’articolo si parla di uno studio finlandese che ha coinvolto 3000 coppie di gemelli. Dallo studio emergerebbe che gli smarter kids, cioè i bambini della coppia gemellare più intelligenti, presenterebbero in adolescenza un rischio maggiore di consumare alcol.
Detta così, sembrerebbe che l’intelligenza - come caratteristica genetica e individuale - in un qualche modo oscuro predisponga all’alcolismo. Per la logica inconscia della mente vale anche il contrario, secondo il principio di simmetria: chi beve di più dev’essere anche più intelligente.
So che fa sorridere, ma andiamo avanti. In realtà fra intelligenza e uso di alcol, secondo lo studio, c’è una correlazione, mediata dal sensation-seeking, cioè la ricerca di sensazioni forti e l’apertura a fare maggiori esperienze diverse fra loro. Le persone più intelligenti sarebbero più aperte a provare cose nuove, tra cui l’alcol e le droghe. C’è un terzo fattore, ma ancora restiamo in un’ottica individuale e “genetica”.
La chiave dell’articolo - e dello studio - in realtà è riportata solo alla fine:

L'intelligenza verbale può spesso consentire ai bambini di negoziare meglio con il mondo sociale, e poiché la maggior parte degli adolescenti più sociali nelle società occidentali beve, essere socievoli li espone inevitabilmente all'alcol. Lo studio ha rilevato che i gemelli più abili verbalmente avevano più amici che bevevano rispetto ai loro co-gemelli, quindi la connessione potrebbe essere rafforzata anche culturalmente”.

Finalmente cominciamo a capirci qualcosa. Anzitutto, scopriamo che, per definire l’intelligenza, nello studio si è fatto riferimento ad un criterio principale: la precocità nello sviluppo del linguaggio. Il bambino della coppia di gemelli che ha parlato per primo sarebbe il più intelligente. Ma possiamo davvero definire così l’intelligenza? Forse è un po’ risicata come definizione. Non sarebbe forse più appropriato dire che lo studio ha preso in considerazione i bambini che hanno sviluppato precocemente competenze sociali e comunicative?
Finalmente usciamo dalla visione genetista e individualista della faccenda ed entriamo nel contesto dei fattori socio-culturali. Bambini che - vai a capire per quali motivi relazionali con il contesto d’appartenenza, l’articolo non lo dice - hanno sviluppato precocemente competenze sociali, hanno maggiori probabilità di diventare adolescenti con una rete sociale più ampia. La cultura nella quale viviamo stimola il consumo di alcol nelle fasce più giovani della popolazione e per chi è più “socievole” le occasioni di incontrare altre persone che bevono sarà maggiore. Maggiore sarà dunque l’esposizione all’alcol. 

Insomma, non abbiamo nessun dato che dimostri una vera correlazione, tantomeno un rapporto causa-effetto, fra l’essere intelligenti (costrutto molto vago) ed il consumo di alcol.
Abbiamo semmai alcuni dati che ci dicono che c’è un rapporto fra la socialità e l’assunzione di alcol. Ciò non stupisce: all’interno di una cultura che connota il consumo sociale dell’alcol come attività divertente e desiderabile, le persone più portate ad avere molti rapporti sociali avranno più occasioni per fare uso di alcol.

 In estrema sintesi, ogni volta che leggete su un giornale o blog non specialistico “lo dice la scienza”, statene certi: la scienza non lo ha detto

PrecedenteContro l’empatia o quasi
SuccessivoAnoressie: da quella ascetica a quella estetica