I disturbi ansiosi sono in crescente aumento sia nella popolazione adulta che tra i bambini, come risulta dalla disamina della letteratura scientifica sul tema.
Frutto di alcune derive della contemporaneità o della diffusa incertezza sul futuro; segno della difficoltà di adattamento ad un ambiente in rapida mutazione in cui è più difficile rintracciare modelli di riferimento solidi; tempi quotidiani ipersaturi; relazioni affettive con cornici più incerte: a prescindere da quale sia la causa alla base di questo incremento, l’ansia è una condizione che incontriamo spesso nella vita, a carico nostro o delle persone che ci stanno accanto.
Chi soffre d’ansia, oltre a vivere il disagio dei sintomi specifici, impiega spesso molta energia nella ricerca di strategia per sottrarsi a situazioni che potenzialmente potrebbero far insorgere il disturbo. Queste “condotte di evitamento” rafforzano tuttavia l’idea di avere qualcosa di sbagliato.
Per questo è molto importante avere cura della comunicazione intorno a questo problema.
“Non ti preoccupare” o “non è niente” è una delle risposte più frequenti che si danno a una persona che sta comunicando il suo disagio o la sua paura per una data condizione. Il movente di tale di risposta è l’intento di disinnescare la paura mostrandone l’irragionevolezza o la modestia, in termini di stimata pericolosità della situazione. Si opta per una rassicurazione generica, che mirerebbe auspicabilmente al sollievo immediato dello stato ansioso.
Purtroppo, per chi è in difficoltà, una risposta del genere è spesso controproducente. Non soltanto aumenta il senso di impotenza, visto che il disagio lo si sente davvero, e quindi è chiaramente qualcosa (e qualcosa di molto importante, per lo più), per chi lo prova; ma contribuisce anche alla percezione di isolamento e di vergogna di chi è in difficoltà. Inoltre, molto spesso l’interlocutore minimizza perché in difficoltà a sua volta rispetto alla difficoltà dell’altro; e l’opposizione rende lo scambio relazionale ancora più paradossale.
In qualche modo, un commento che tenda a minimizzare lo stato di disagio che l’interlocutore sta comunicando non consente a chi è in difficoltà di sperimentare senza veto e senza giudizio l’esperienza che sollecita la reazione ansiosa.
Questa sequenza è particolarmente critica nella comunicazione con i bambini. Se un bambino percepisce che alcune espressioni affettive sono soggette a un giudizio genitoriale negativo, metterà consciamente e inconsciamente in atto strategie per reprimerne la manifestazione, con alcune conseguenze rischiose: una crescente difficoltà a sentirsi in sintonia e confidenza con le proprie emozioni e l’indebolimento della capacità di valutare la reale pericolosità delle situazioni-stimolo.
Qual è quindi il modo migliore per comunicare con chi si trova in uno stato ansioso?
La prima cosa è mettersi in ascolto. Far percepire all’altro che lo si sta prendendo sul serio e che la sua emozione, anche se non condivisa, ha valore e diritto di cittadinanza. Una buona idea è fargli qualche domanda dettagliata: cos’è che lo sta mettendo in difficoltà? Cos’è che ha dato avvio al sentimento di disagio? È già successo?
Per l’ansia, così come per il panico, possono essere di aiuto esercizi di rilassamento e visualizzazione di immagini positive, oltre che intraprendere, se necessario, una terapia che aiuti ad approfondire le cause e le dinamiche di insorgenza e mantenimento del disturbo.
In ogni caso l’offerta di vicinanza, la disponibilità all’ascolto e l’accoglimento della difficoltà sono una buona strada per aiutare la persona ansiosa a entrare in rapporto con il proprio sentire.