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Con queste parole, Bessel van der Kolk, nel suo più celebre testo “Il corpo accusa il colpo”, descrive il modo in cui gli eventi traumatici possano avere ripercussioni non solo sulla psiche, ma anche sul corpo degli individui. Il merito di van der Kolk è aver riconnesso ciò che siamo solitamente abituati a percepire come distinto: corpo, mente e contesto. L’esperienza traumatica, infatti, si svolge all’interno di relazioni - primarie e non - con gli altri e gli effetti in alcuni casi si esprimono attraverso le sensazioni corporee, negate e rifiutate, quando un’elaborazione cognitiva ed emozionale non è possibile.
In questi giorni, il caso delle Farfalle Azzurre, le atlete italiane di ginnastica ritmica che lavorano nell’ambito della nostra Federazione, sta occupando le prime pagine dei giornali. Alcune atlete, infatti, hanno denunciato l’ambiente sportivo nel quale sono cresciute e si sono allenate, rivelando retroscena inquietanti e atti di body shaming subiti.
La prima atleta a denunciare è stata la 19enne Nina Corradini, che ha raccontato le pressioni e le umiliazioni a cui è stata sottoposta per soddisfare i parametri di peso della Nazionale italiana di ritmica.“Ogni tanto mangiavo solo un biscotto, ovviamente di nascosto, mentre ci cambiavamo per l’allenamento. Mi pesavo 15 volte al giorno. Il lassativo mi disidratava e, non mangiando, non avevo più forze. Mi ammalavo, avevo poco ferro nel mio corpo. Una volta sono svenuta a colazione, ma le allenatrici mi hanno fatto andare lo stesso in palestra, pensavano fosse una scusa”.
“L’allenatrice mi ripeteva ogni giorno: 'Vergognati', 'mangia di meno', 'come fai a vederti allo specchio? Ma davvero riesci a guardarti?'. Una sofferenza. Una volta mi hanno dato una dieta e alla fine c’era scritto un messaggio per me: 'Abbiamo un maialino in squadra’”.
Il racconto della Corradini delinea a tutti gli effetti i contorni di un contesto traumatizzante, nel quale il corpo, oltre che ambito di espressione del malessere vissuto, diventa l’oggetto stesso della violenza subita, sottoposto ad un regime devastante su cui si riversano i sensi di colpa ed i vissuti di umiliazione instillati dall’ambiente di allenamento, fino ad arrivare all’esaurimento delle forze.
A seguito di tale denuncia, molte altre atlete ed ex ginnaste si sono fatte avanti, come viene espresso chiaramente in questo articolo di Repubblica:
“Solo ora, dopo diversi anni e un lungo percorso con uno psicologo, riesco a prendere le distanze da quel mondo e a concepire la ginnastica come uno sport, non come una costrizione. Prima su di me gli allenatori alzavano le mani e tuttora molti lo fanno ancora. Probabilmente il presidente non sa che molte persone come me, ancora oggi, si svegliano nel cuore della notte piangendo avvolte da incubi, schiave di ansiolitici”.
Le parole qui riportate fanno riferimento ad una dichiarazione rilasciata dal presidente della Federginnastica Gherardo Tecchi:
“Non pensa che sia molto strano che queste ragazze trovino il coraggio di parlare dopo molti anni dai fatti?”.
Queste affermazioni, che tentano di instillare il dubbio sulla presunta convenienza nel denunciare i fatti a distanza di anni da parte delle atlete, rivelano la scarsa conoscenza da parte di alcuni vertici federali dei processi psicologici che si attivano in persone che vivono esperienze traumatiche e che non hanno gli strumenti per elaborare ciò che sta avvenendo, soprattutto a causa del fatto di vivere quotidianamente in un contesto abusante, a cui però non possono rinunciare, sia perché sono cresciute in quel contesto fin da piccole, sia perché tale rinuncia rappresenterebbe la fine della propria attività agonistica.
In questo senso, le parole di van der Kolk ci appaiono estremamente limpide. La continua traumatizzazione e ri-traumatizzazione vissuta entro un ambiente che è allo stesso tempo fonte di abuso e indispensabile per la propria realizzazione personale, ha portato molte atlete ad un adattamento - forzato e disfunzionale - al contesto traumatico, sino alla negazione di tutti i segnali che il corpo stava inviando loro. Un corpo stremato, affamato, portato ai confini della sopravvivenza.
Soltanto la presa di distanza dal contesto ha permesso alle atlete di far emergere la consapevolezza di ciò che hanno vissuto. Per cui no, non riteniamo sia strano che le atlete abbiano trovato il coraggio di parlare dopo anni dai fatti. Ci sembra piuttosto l’esito di una presa di coscienza che si è potuta sviluppare proprio grazie alla distanza degli anni e soprattutto grazie alla sottrazione da quel tipo di regime psicocorporeo cui erano sottoposte.Ci teniamo qui a sottolineare che non vogliamo generalizzare. La disciplina sportiva in questione, che comunque richiede sacrifici e allenamento, non è positiva o negativa di per sé per le persone che la praticano.
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Ciò su cui vogliamo porre l’attenzione è il fatto che dietro ogni atleta ci sia sempre, prima di tutto, una persona a cui l’atleta si affida. Quando tale rapporto diventa disfunzionale, i problemi possono diventare molto complessi. In tal senso, una formazione e una sensibilizzazione agli aspetti psicologici e relazionali nel contesto sportivo si dimostrano sempre più importanti e necessarie.
E’ questo l’invito che speriamo possa cogliere anche il Presidente Malagò, che ha recentemente annunciato che sarà importante nei prossimi mesi fare chiarezza su quanto è avvenuto in passato o avviene ancora. Ci auguriamo che le sue parole non siano vane.