“Certi amori non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano”
L’occhiale scuro a goccia, che lascia intravedere gli occhi disincantati, la stempiatura incipiente, la barba appena accennata, volutamente trasandata, la camicia bianca. Un uomo che è stato fiaccato dagli eventi, ne è sopravvissuto e ci tiene a farlo sapere, nei segni sul volto prima ancora che nei testi. Quando scrive “Amici mai”, Venditti è nel pieno della sua maturità artistica, che fa da contrappeso a quella sentimentale. Il ricordo della ex moglie è infatti ancora vivissimo, nonostante sia passato del tempo. Il suo tenace rifiuto di accettare la fine della relazione esplode in questa canzone che, come ogni testo pop ben riuscito, riesce a narrare quel tipo di emozioni che solitamente, per pudore o per vergogna, ci costringiamo a trattenere, quantomeno in pubblico.
Il mio primo istinto sarebbe quello di dire che oggi una frase del genere non avrebbe una calda accoglienza. Mi accorgo, tuttavia, del mio pregiudizio: probabilmente non è stata accolta caldamente nemmeno allora (erano i primi anni ‘90) da molti innamorati delusi. L’amore che non finisce mai e che ritorna è sempre stato contrastato culturalmente dall’immagine della “minestra riscaldata”. Se qualcosa è finito c’è una ragione ed il più delle volte restano amarezza, dolore e rabbia, anziché nostalgia e appunto la tenacia di chi non vuole mollare la presa. Tanto più quando la rottura della relazione è improvvisa e apparentemente immotivata.
Una certa tendenza narcisistica porta la gran parte di noi a ritenere inconcepibile che qualcuno possa andarsene senza lasciare a testamento motivazioni convincenti e dettagliate. Tendenza che è perfettamente complementare a quel fenomeno di cui si è parlato all’infinito - a mio avviso in modo del tutto superficiale, anche quando trattato da fior di professionisti - che è il ghosting.
L’utilizzo dell’immagine del fantasma per descrivere una persona con cui si intraprende una relazione più o meno significativa e che all’improvviso scompare, si concentra esclusivamente sul comportamento manifesto. Eppure i fantasmi hanno molto di più da raccontare.
Se ci pensate bene, nel senso comune e nella produzione culturale, il fantasma è descritto come figura spaventosa per due motivi:
anzitutto perché è una figura ambigua, che si pone a metà strada fra la vita e la morte. Non è né francamente reale, né smaccatamente immaginaria. E’ proprio la compresenza di reale e fantastico che la rende perturbante;
in secondo luogo, del fantasma non preoccupa l’assenza, ma al contrario la sua presenza. Quando un fantasma scompare dalla scena di un film, l’ambiente ritrova la sua stabilità (le luci si riaccendono, torna il silenzio, gli oggetti si fermano), segnalando allo spettatore che il climax emotivo si è concluso.
Entrambi questi motivi si adattano perfettamente alle relazioni interrotte che abbiamo culturalmente deciso di chiamare ghosting. Il ghosting è un fenomeno che si sviluppa nella maggior parte dei casi in un ambiente virtuale, entro un tipo di relazione nella quale la confusione fra elementi reali e fantasie proiettive raggiunge livelli estremi. E’ uno spazio di sospensione in cui la conoscenza dell’altro si arricchisce di tutte le nostre proiezioni inconsce. Per la precisione, ciò avviene in tutte le relazioni, virtuali o non virtuali che siano. L’ambiente virtuale, con il fatto di essere disincarnato e prettamente verbale, amplifica le occasioni di proiezione inconscia, che talvolta è disancorata da una effettiva conoscenza dell’altro. Così l’altro diventa soprattutto un altro immaginato, che sappiamo esistere, ma che allo stesso tempo esiste fantasmaticamente solo in relazione a noi, perché non abbiamo spesso la possibilità di conoscerlo mentre lavora, mentre si muove e cammina, mentre svolge attività quotidiane.
Oltre a ciò, colui che ci ghosta non ci spiazza per la sua assenza. Semmai ci provoca rabbia proprio perché è una presenza (introiettata, direbbero quelli bravi) su cui abbiamo investito le nostre fantasie d’amore o d’amicizia. Una presenza che talvolta riappare, provocando ulteriore risentimento e disorientamento, ma che soprattutto resta inelaborata nella nostra esperienza, privata di un dialogo sui limiti del rapporto, sui motivi della conclusione, sul senso generale di quello che è avvenuto.
Hans Loewald, psicoanalista tedesco, discepolo di Heidegger e devoto a Freud - che come tutti i devoti ne ha completamente rielaborato le teorie - non doveva essere la prima persona a cui avresti pensato per un invito ad una festa. Però di fantasmi se ne intendeva.
“Chi conosce i fantasmi dice che essi anelano ad essere liberati dalla loro vita di fantasmi e condotti a riposare come antenati. Come antenati continuano a vivere nella generazione presente, mentre come fantasmi sono costretti a ossessionarla con la loro vita di ombre”.
Il fenomeno del ghosting, quando lo spostiamo dal piano dei comportamenti espliciti al piano dei vissuti interiori, come vedete, è sempre esistito. L’idea ossessiva per la relazione interrotta bruscamente che ci ha ferito, priva di elaborazione, resta lì a tormentarci come un fantasma che tuttavia anela ad essere liberato e finalmente restituito al suo ruolo di antenato, cioè ad esperienza con cui abbiamo fatto i conti e che possiamo ricordare senza patemi.
Per inciso, qualcuno di voi forse fra le righe avrà notato che anche noi per diversi mesi vi abbiamo ghostato. Non siamo però tornati con questa newsletter per rimanere fantasmi. Ripartiremo da dove ci siamo interrotti: raccontare la contemporaneità e la nostra cultura attraverso la psicologia.