Corri a laurearti!

Corri a laurearti!

Carlotta Rossignoli ha 23 anni, si è appena laureata in Medicina all’Università San Raffaele di Milano ed ha chiuso il suo account Instagram per aver ricevuto troppi insulti da parte degli utenti. 

Il caso della Rossignoli è ormai sulla bocca di tutti, abbiamo letto decine di articoli in merito e, come spesso accade sui social network, la notizia, anziché attivare una riflessione su quali siano le categorie su cui si fonda la contemporaneità, è diventata occasione per riversare una rabbia agita, che però non aiuta a capire cosa stia avvenendo.
In questa sede non ci interessa fare ipotesi su come la Rossignoli si sia laureata, bruciando tutte le tappe. Ci interessa, piuttosto, approfondire cosa significhi l’espressione bruciare le tappe.

Mi sembra molto interessante partire dalla riflessione che Andrea Colamedici e Maura Gancitano, fondatori di Tlon, hanno proposto sull’account Facebook della loro pagina:

“Quest’urgenza di esaltare chi completa prima le cose, chi brucia tutte le tappe, è innanzitutto un modo per spingere le persone a competere brutalmente e a considerare la vita come una gara.
Ma è anche un enorme desiderio di morte collettivo, legato all’ansia di esaurire tutto al più presto. In mancanza di senso, resta soltanto la velocità.
“Perché lo sto facendo? Non lo so. Ma ho fatto molto presto”.
Oggi chi non si ferma è perduto”
.

Bruciare le tappe non è solo un’espressione idiomatica un po’ stantia. E’ un modello culturale che offre una precisa definizione di come la società contemporanea descrive le relazioni sociali ed i significati ad esse associati.
C’è una narrazione mediatica sempre più diffusa relativa al mondo del lavoro, che tuttavia si allarga anche ad altri ambiti della vita personale e sociale degli individui. Questa narrazione lega il concetto di successo (un concetto molto insidioso) all’urgenza di realizzazione, da un lato. Dall’altro propone il sacrificio e la capacità di adattamento alle richieste del mercato come contraltare.

Per sintetizzare, il caso della Rossignoli non è certo il primo che viene proposto come esempio di successo. Abbiamo letto tante storie di giovani laureati che hanno terminato prima del tempo il proprio percorso formativo.
Accanto a tale narrazione, viene proposta quella delle nuove generazioni che non accettano più i sacrifici di un tempo. Ristoratori, aziende tessili, ogni tipo di gestione commerciale lamenta l’assenza di personale che abbia voglia di faticare e farsi le ossa, come avveniva in un passato mitizzato, anche quando le paghe offerte non sono all’altezza del sacrificio richiesto.

Questa etica del lavoro è incentrata su una figura-cardine della nostra epoca, il manager. L’immagine del manager rampante che scala rapidamente la montagna verso il successo personale (e aziendale), sacrificando ogni altro aspetto della vita, prima di tutto il proprio tempo, il sonno e le relazioni sociali non professionali, è ormai estesa all’intero sistema produttivo e lavorativo. Anche chi manager non è, sembra debba rispondere a questo tipo di performance e a questi ritmi, se non vuole essere escluso dal mondo produttivo.
Nei paesi anglosassoni il fenomeno è talmente entrato nell’immaginario comune, che esiste una specifica definizione per descrivere lo stress vissuto dai manager: hurry sickness, il “mal di fretta”, cioè quella condizione che porta a sintomi psico-fisici certamente non salutari, derivata dalla necessità di lavorare, studiare e socializzare a ritmi sfrenati, sacrificando appunto tutto quanto non è specificamente utile alla realizzazione professionale (mi vengono in mente due versi di Fabrizio De Andrè - che lungimirante lo è sempre stato - che non sono casuali: al Dio degli inglesi non credere mai; al Dio “fatti il culo” non credere mai).

Facciamo però un passo indietro. Cosa lega l’urgenza di bruciare le tappe all’etica del sacrificio?
Direi prima di tutto l’assenza di senso
. Entrambi questi modelli propongono valori dati a priori. La celebrazione del successo, inteso come il raggiungimento di qualcosa prima degli altri, non ci dà alcuna indicazione su cosa farcene di quel che abbiamo raggiunto così in fretta.
Allo stesso modo, il sacrificio è un’adesione a qualcosa di preordinato. Non è importante capire a cosa serva sacrificarsi, è importante farlo a prescindere perché così è sempre stato, prima o poi il senso verrà fuori da solo.

Questa narrativa del successo evidenzia una profonda mancanza di pensiero su quali sono gli obiettivi professionali e formativi del nostro tempo. Questo vuoto, come si può facilmente intuire, provoca ansia in tutti coloro che prima di tutto cercano di dare senso ai prodotti del proprio lavoro e della propria istruzione.

L’aspetto per certi versi più preoccupante è che siamo usciti da poco da un periodo di sospensione unico nel suo genere, come la pandemia. L’urgenza di rispondere in modo performativo al mercato è stata interrotta dai vari lockdown e per lungo tempo si è parlato di ridefinire il senso che abbiamo dato per decenni alla produttività ed al successo.
Ora che la pandemia è nella sua fase finale, sono tornati prepotentemente a riaffermarsi modelli di realizzazione professionale e personale che descrivono la velocità come categoria buona in sé. Evidentemente non è un caso. C’è una sostanziale tendenza a narrare la pandemia come accidente non previsto che conviene dimenticare prima possibile.
Il rischio è che l’esperienza pandemica finisca per essere raccontata come tempo perso ed in quanto tale alienante, proprio per la sua assenza di significato. Un rischio che certamente non è funzionale a comprendere come possa evolvere il mondo del lavoro nei prossimi anni. 

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