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Sono in terapia con lei da 3 anni, ci sono stati altri episodi effettivamente fastidiosi, però trovo davvero poco professionale un atteggiamento del genere. La motivazione era che aveva una perizia urgente quella mattina, però almeno avvisami, no?
Per quanto sia difficile dopo 3 anni, pensate che dovrei cambiare psicologa? So che sembra una decisione drastica però questa cosa mi ha fatto rimanere veramente male, sono in terapia proprio perché sono stata sempre invisibile nella vita da quando ero bambina e questa cosa mi ha smosso delle sensazioni poco piacevoli…”
Questo sfogo è stato scritto da una ragazza sul più noto social network della rete, su un gruppo chiuso, nel quale gli utenti discutono spesso di psicologia e del rapporto con il proprio terapeuta.
I commenti degli altri partecipanti al gruppo invitavano la ragazza a parlare dei suoi vissuti con la terapeuta, ma anche a cambiarla e cercarne una nuova, perché quanto riportato sarebbe prova evidente di un rapporto di fiducia deteriorato tra cliente e psicologo.
Non entreremo qui nel merito dell’atteggiamento più o meno professionale della terapeuta, soprattutto perché non conosciamo chi sia, cosa sia avvenuto, se non nella versione riportata dalla paziente.
L’aspetto interessante è approfondire la cultura che oggi sempre più si sta diffondendo in merito all’intervento psicologico, sempre più inteso come modo per gratificare un bisogno, anziché percorso per lo sviluppo di competenze relazionali ed emozionali da parte del cliente.
In altre parole, il vissuto che c’è dietro questa tendenza è quello della pretesa infinita che è data dai ruoli ricoperti: “io sono il paziente bisognoso che paga e tu sei qui per me, per soddisfare le mie esigenze emotive”. Dunque, lo spazio terapeutico viene appiattito a contesto in cui l’obiettivo è la gratificazione di una fantasia emozionale di accoglienza e non il luogo in cui poter sospendere la ricerca di gratificazione e pensare sul senso dell’essere accolti o l’essere frustrati.
Nel caso specifico, la persona che descrive il vissuto di abbandono, sperimenta le emozioni spiacevoli che derivano dal comportamento della terapeuta.
Ci sono in questo caso due possibili strade: la prima è reagire alle emozioni “intollerabili” in modo aggressivo, interrompendo la relazione terapeutica, perché il “patto di fiducia” si è deteriorato. La conseguenza è che la terapeuta evidentemente non è la persona giusta, perché si è comportata male e non ha avuto cura del vissuto abbandonico della paziente. Da qui la richiesta di cambiare terapeuta, nella speranza che se ne possa trovare uno più consono alle proprie esigenze.
La seconda strada è partire dalle emozioni spiacevoli provate a seguito del comportamento della terapeuta per riflettere sul modo in cui la paziente vive le proprie relazioni quotidiane. La “crisi” nel rapporto terapeutico diventerebbe, dunque, occasione per far emergere i vissuti di rabbia e delusione, usando la relazione stessa (il qui e ora della terapia) come mezzo per comprendere cosa significa “sentirsi invisibili” nei propri rapporti quotidiani (il là e allora del mondo esterno alla terapia).
D’altro canto, la fantasia di cambiare terapeuta quando le cose non vanno come si vorrebbero non è distante dal modo in cui oggi vengono descritte le relazioni sentimentali e di coppia.
L’idea di cercare la “persona giusta per noi” con cui costruire un rapporto d’amore è sempre esistita, ma un tempo la cultura proponeva un’ottica diversa. La persona giusta era anche quella con cui affrontare tutti gli aspetti critici di una relazione, cioè anche il vissuto di frustrazione che qualsiasi relazione comporta. La crisi era concepita come fase inevitabile del rapporto di coppia e la separazione era vissuta come extrema ratio a seguito di numerosi tentativi di porre rimedio ai problemi di coppia.
Oggi, si sta diffondendo un altro tipo di cultura, che porta a una maggiore instabilità relazionale. La fantasia è che la persona giusta raramente possa deluderci e che la crisi sia il sintomo chiaro che la coppia non funziona. Non c’è una propensione al futuro, volta a sviluppare la relazione di coppia, quanto l’idea che il partner non debba metterci in difficoltà, pena l’interruzione immediata del rapporto.
Questa cultura sembra si stia diffondendo anche nella relazione terapeutica. E’ molto utile sottolineare che non è una cultura che deriva esclusivamente dalle pretese dei pazienti, ma che è proposta attivamente dal recente proliferare del mercato online dei servizi psicologici.
Uno degli slogan utilizzati dalle piattaforme online è “trova lo psicologo adatto a te”, slogan poi reificato nella possibilità di chiedere alle piattaforme di cambiare psicologo con pochi click e in breve tempo.
Una cultura problematica che riduce la “selezione” dello psicologo a impressioni vaghe, che non sono il prodotto dell’incontro terapeutico, quanto l’esito della fantasia di evitare il più rapidamente possibile i vissuti spiacevoli di frustrazione o di estraneità, senza i quali non è possibile creare un rapporto di conoscenza e di condivisione di obiettivi terapeutici.
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