Billy Milligan, un ragazzo americano di 22 anni, viene arrestato nel 1977 per aver rapito, stuprato e rapinato 3 studentesse dell’Ohio State University, proprio nei pressi del campus. Le 3 ragazze lo hanno riconosciuto dalle foto segnaletiche usate dalla polizia. D’altronde non era un’impresa difficile riconoscerlo, Billy non aveva usato alcun accorgimento per camuffarsi. Aveva agito alla luce del giorno, aveva lasciato ovunque le sue impronte digitali.
Quando viene arrestato, però, Billy ha una strana reazione. Non nega i suoi crimini, né allude ad uno scambio di persona, né infine tenta di proporre un alibi.
Billy semplicemente non ricorda nulla.
Durante il processo, l’accusa naturalmente non vuole bersi la favola dell’amnesia. Per loro Billy è lucido e sta tentando di ingannare tutti per ottenere l’infermità mentale.
Quello che però emerge dalle perizie psichiatriche è unico nel suo genere. I medici, infatti, dopo qualche colloquio cominciano a notare dei comportamenti bizzarri in Billy. Nei momenti in cui è sottoposto a stress, Billy cambia voce, assume una postura corporea diversa, utilizza linguaggi diversi. In alcuni casi parla come un bambino, in altri diventa aggressivo ed il suo tono minaccioso. Ogni volta il suo nome cambia, fino a quando non torna ad essere Billy e, quando torna, non ricorda nulla di quello che è appena avvenuto.
Il team di psichiatri capisce che Billy non sta mentendo. Le sue doti attoriali sarebbero degne di almeno un paio di oscar e le incongruenze fra i diversi comportamenti che Billy assume sono troppo smaccate. Ogni volta che Billy diventa qualcun altro è credibile, coerente, e lo resta per tutto il periodo in cui quello specifico alter prende il sopravvento. Ogni volta che gli alter tornano nel buio e Billy riemerge, lui non ricorda davvero nulla. Non capisce nemmeno dove si trovi, chi siano gli psichiatri che lo stanno interrogando.
Il caso comincia a diffondersi nell’ambiente medico ed in quello mediatico più ampio. C’è una sola psichiatra che sa quello che Billy sta vivendo e lo sa perché lo ha già visto di persona. Entra così in scena la dott.ssa Cornelia Wilbur, divenuta famosa per aver scritto il bestseller Sybil, nel quale racconta la storia di una sua paziente affetta, come si diceva allora, da Personalità Multiple.
La Wilbur scoprirà con il tempo che Billy ha 24 diverse personalità ed è convinta di poterle riunire in una attraverso la terapia. Per comunicarlo a Billy usa l'espressione “fondere le personalità”. Non ci riuscirà mai completamente, ma permetterà a Billy di essere assolto. Quello di Billy Milligan è il primo caso negli Stati Uniti in cui un criminale, sebbene riconosciuto colpevole dei reati commessi, è stato assolto perché affetto da una patologia mentale che non lo rendeva responsabile delle azioni compiute.
Sul caso Netflix ha fatto uscire da poco la serie Monsters Inside: The 24 Faces of Billy Milligan di cui consiglio la visione.
Questo tipo di disturbo è stato accolto per decenni con diffidenza dalla stessa psichiatria. Anche oggi, nonostante l’evoluzione della ricerca e degli studi su migliaia di casi, molti specialisti non credono a questo tipo di patologia mentale.
Gli approcci più recenti non parlano più di personalità multiple, ma di Disturbo Dissociativo dell’Identità. Un trauma originario - molto spesso un evento molto violento, come un abuso sessuale subito in famiglia - porta la mente della vittima a dissociarsi, cioè a scindersi in più parti. Il più delle volte, accanto alla parte principale (l’identità centrale della vittima che cresce con il passare del tempo), si presentano due parti ricorrenti: quella che resta bambina, che rimane invischiata all’epoca del trauma subito, e che “si fa carico” del ricordo della violenza subita, rivivendo il trauma, ma in modo dissociato, in modo tale che le altre parti non lo ricordino e possano andare avanti. La seconda è quella che si identifica con l’aggressore: spesso una parte violenta, che nei casi estremi commette atti criminali su altri, ma che il più delle volte mette principalmente in pericolo la propria incolumità, con atti di autolesionismo o l’assunzione di comportamenti pericolosi.
Oltre a queste, emergono altre parti, che hanno ruoli che diremmo più “funzionali”: alcune sono in grado di lavorare e studiare, altre di amare, alcune apprendono lingue che le altre parti non conoscono. Così, un individuo con dissociazione complessa può scoprire di sapere il tedesco senza ricordarsi di averlo mai studiato.
L’amnesia dissociativa, infatti, è frequente, anche se non sempre presente. Quando una parte alter prende il controllo, alcune o tutte le altre parti non sono coscienti, non sanno cosa sta accadendo e non lo ricordano. La mente si dissocia affinché la funzione emozionale che la parte rappresenta possa esprimersi.
E’ una condizione molto complessa da trattare. I pionieri dei nuovi approcci che parlano di trauma complesso e dissociazione dell’identità non mirano più ad una completa integrazione delle parti, come propose la Wilbur a Milligan. Spesso il lavoro consiste nel rendere consapevole il paziente delle sue parti dissociate e nel creare le condizioni affinché esse collaborino fra loro in vista di un obiettivo comune: una vita funzionale e dignitosa, nella quale le diversi parti parlino fra loro, si ascoltino e prendano decisioni utili per la vita di tutti.
So che per chi legge questa condizione può apparire spaventosa. Sappiate però che gli studi più recenti - come quelli del modello IFS (Internal Family Systems) - stanno dimostrando che ognuno di noi ha delle parti diverse fra loro dentro di sé e che rispondono a funzioni precise di cui non siamo spesso consapevoli, anche se tali parti non sono dissociate come nel Disturbo Dissociativo d’Identità.
Questo, però, sarà argomento di una futura newsletter.