Lunedì scorso una buona parte degli Italiani hanno atteso l’esito delle elezioni che andranno a definire la composizione del governo, del senato e del parlamento dei prossimi anni. Alcuni hanno accolto la vittoria piuttosto netta della Meloni con entusiasmo, altri d’altro canto mostrano segni di preoccupazione per i valori espressi dalla leader di Fratelli d’Italia, rispetto ai quali non si sentono rappresentati.
Due elementi meritano però un approfondimento:
- Le elezioni definiranno la composizione delle istituzioni politiche per i prossimi anni. Sì, ma quanti anni?
- I valori espressi da Giorgia Meloni entusiasmano alcuni e preoccupano altri. Quanto ancora, però, i valori giocano un ruolo determinante per il successo politico?
Fra gli anni ‘20 e gli anni ‘40, Edward Bernays rivoluzionò completamente le convinzioni che vigevano attorno al tema della costruzione del consenso in diversi ambiti, da quello pubblicitario e commerciale, sino a quello politico.
Bernays ha prima di tutto una genealogia degna di nota: figlio di Anna Freud, sorella del padre della psicoanalisi, Bernays coniugò da subito le intuizione psicologiche con una sensibilità spiccata per la comprensione del contesto statunitense e delle tendenze già in essere nel campo della comunicazione.
Si definiva consulente in pubbliche relazioni - oggi lo definiremmo spin doctor - e ideò, progettò e realizzò diverse campagne pubblicitarie di successo, scrivendo due testi che divennero quasi da subito un riferimento per tutti i teorici della comunicazione: Propaganda è del 1928, mentre the Engineering of Consent (L’ingegneria del consenso) è del 1947.
Seppur ormai datato, la grandezza di Bernays risiede nell’aver anticipato due tendenze che oggi ci appaiono chiarissime, ma che all’epoca erano ancora molto difficili da inquadrare:
- La produzione del consenso non si fonda più sul radicamento al territorio, ma sulla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, che ampliano a dismisura la diffusione del messaggio politico. Oggi, con i social network, questo processo ha raggiunto la sua massima espressione.
- Il consenso non si fonda più sul sistema di valori espresso dal partito o dal movimento politico nel suo complesso, quanto sulla capacità del leader carismatico di comunicare quei valori. E anche questo processo ci appare oggi chiarissimo, fino a diventare lapalissiano.
Bernays credeva nella possibilità di ingegnerizzare la costruzione del consenso. In questo era figlio del suo tempo, dal momento che era convinto che un’azione basata sulla conoscenza dettagliata del contesto e sull’applicazione di principi scientifici e tecnici sarebbe bastata a persuadere le persone in ambito politico.
Oggi sappiamo che i fattori che contribuiscono al successo della comunicazione politica non sono meramente tecnici, ma cognitivi, emozionali, situazionali, in una parola psicologici.
Certamente Bernays ebbe il merito di comprendere il ruolo centrale della personalizzazione della leadership politica. Ciò che però oggi ci appare palese è che tale leadership è molto labile.
Basti pensare a cosa è avvenuto nel nostro Paese negli ultimi dieci anni: Renzi nel 2014 aveva un consenso del 40%; nel 2018 il Movimento 5 Stelle raggiunse il 32% e subito dopo Salvini, in una rapidissima scalata, passò dal guidare un partito con percentuali ridotte al 40% dei consensi nazionali. Oggi il partito della Meloni è votato da un quarto degli italiani, ma dovrà fare i conti con una tendenza molto chiara: ad una rapida ascesa corrisponde un’altrettanto rapida caduta del consenso.
Come sostiene il consulente politico Giovanni Diamanti, la questione sta principalmente nel fatto che la nostra società ha meno riferimenti di quella dei decenni trascorsi:
“Il fatto che si passi in pochi anni da un Partito Democratico al 40% a una Lega che sfiora il 40% come nell’estate del 2019 racconta appunto che viviamo in un Paese che ha pochi riferimenti, in cui l’opinione si cambia molto spesso, dove non vi sono più gli opinion maker sociali – cioè le subculture si sono sicuramente allentate, sia è allentato il loro rapporto con la politica”.
Questa rottura del rapporto fra le subculture (un tempo le avremmo definite classi sociali con ideologie definite) e la politica, è ovviamente causata da molti fattori, ma quelli percettivi e psicologici sembrano essere dominanti.
Il voto, infatti, sembra essere molto meno legato a valori e credenze stabili, quanto all’opinione, che è un concetto estremamente volubile. L’opinione, infatti, è molto più legata a fattori situazionali. Essa varia sulla base di come percepisco il contesto in cui vivo in un dato momento della mia vita e della vita del Paese. La comunicazione digitale, inoltre, ha reso molto più estremo questo processo cognitivo, che è determinato anche dalla qualità emozionale che associamo alle informazioni ed alle comunicazioni politiche che leggiamo.
Qualcuno, tempo fa, ha proposto di adeguare il nostro sistema elettorale ai tempi moderni, ipotizzando un futuro prossimo nel quale le elezioni si svolgerebbero ogni due anni, per venire incontro proprio a questa variazione repentina di idee, convinzioni ed emozioni legate alla politica, oltre che alla necessità di avere sistemi decisionali più flessibili in grado di intervenire tempestivamente sulle trasformazioni sociali e materiali della nostra epoca.
Magari il nuovo governo smentirà questi trend e avrà una durata e stabilità maggiore rispetto a quanto avvenuto negli ultimi anni. L’analisi politica, statistica ed infine psicologico-sociale, tuttavia, non sembra andare in questa direzione.