Il buon vecchio sesso fa paura

Il buon vecchio sesso fa paura

Da diversi anni il rapporto fra la sessualità e la tecnologia ispira saggi e riflessioni, alimenta preoccupazioni, induce a previsioni future e coinvolge esperti di ogni campo, dagli psicologi, ai filosofi, dai neuroscienziati, ai sociologi e agli esperti di nuovi media.

È un proliferare di articoli sul sexting, sul ghosting, sull’orbiting, sulle app di dating e sulle nuove forme di relazione affettiva e sessuale.

Abbiamo l’impressione che internet abbia stravolto il campionario dei rapporti d’amore, introducendo non solo nuovi termini per esprimere concetti antichi, ma anche nuove forme di godimento e soprattutto di protezione dal confronto con il terrore che il corporeo evoca. C’è un’ipertrofia “tecnosofica”, che privilegia spiegazioni che affidano alla tecnica la capacità di orientare il comportamento e non guarda invece alla cultura come fattore che guida il mezzo tecnologico.

Il tema, in realtà, precede di molto l’avvento delle nuove tecnologie. Alla fine degli anni ‘60 l’uscita de Il lamento di Portnoy di Philip Roth rivoluzionò completamente la narrazione della sessualità. Il sesso di Portnoy è nevrotico e scabroso (su tutte la scena della masturbazione del protagonista adolescente con l’ausilio di un pezzo di carne appena acquistato dal macellaio), è assieme coartato e ribelle. Il romanzo racconta di quel periodo appena precedente la liberazione sessuale, in cui repressione e trasgressione ancora coesistono prima di esplodere in una corporeità smodata e animalesca, di cui il personaggio della “scimmia” (l’amante bella e selvatica che Portnoy svaluta costantemente durante il racconto) è l’emblema più limpido.

Questa sessualità “liberata”, propria della vecchia generazione di quelli che David Foster Wallace definiva i Big Male Narcissists, comincia a trincerarsi ben prima dell’avvento di internet. Lo stesso David Foster Wallace può essere preso ad esempio di questo passaggio, che presenta diversi aspetti di continuità con i “mali” che oggi attribuiamo alle relazioni virtuali.

I personaggi di Wallace, infatti, sono portatori di un narcisismo più evoluto e allo stesso tempo più mediato. Chiunque abbia a mente Le brevi interviste ad uomini schifosi sa quanto Wallace abbia anticipato i temi più caldi del discorso contemporaneo, dal mansplaining alle infinite forme di stupro e violenza perpetrata dalla mascolinità tossica.

A questo tipo di sessualità scopica, nella quale l’assuefazione al linguaggio pornografico sembra essere costante (basti pensare a quell’intervista nella quale l’intervistatrice è minacciata di venir penetrata con una bottiglia di whiskey), Wallace contrappone in altri testi l’impossibilità del contatto erotico.

Spesso in Wallace il sesso è più immaginato che descritto. Gran parte della narrazione è dedicata a ciò che avviene prima del potenziale atto sessuale, che non si realizza mai. Il maschio che ne emerge è incistato in nuove forme nevrotiche. Non c’è più la ricerca del godimento come momento catartico, ma il desiderio di riconoscimento, la paura del rifiuto, l’angoscia per il crollo di un ruolo di genere a cui si fa sempre più fatica ad aderire, anticipando in questo - non possiamo dire quanto volontariamente - molti movimenti maschilisti contemporanei, la Redpill su tutti. Il sesso è spostato dal piano corporeo e vitale di Portnoy, ad un piano puramente linguistico e fantasmatico, nel quale la narrazione di tutto ciò che circonda la sessualità - le emozioni, l’ambiente, le aspettative sociali ed individuali - diventa il vero senso dell’Eros.

A questo passaggio, lo stesso Wallace fornisce un contesto storico. In un saggio del ‘96, “Noi, il sesso e il drago”, l’autore recupera la funzione che la terribile ondata di AIDS di quegli anni ha avuto nel trasformare il rapporto con il sesso. Oggi forse abbiamo dimenticato cosa significasse allora trovarsi improvvisamente a passare dalla liberazione sessuale al terrore per il contatto fisico che genera morte (d’altro canto, quanto è stato, soltanto poco tempo fa, impietosamente attuale questo terrore?).

Grazie all'Aids, stiamo allargando la nostra immaginazione su ciò che è «sessuale». Nel profondo sappiamo tutti che la vera attrattiva della sessualità ha a che fare con la copulazione più o meno come il fascino del cibo ha a che fare con la combustione metabolica. Per quanto (potesse sembrare) scontato, la vera sessualità riguarda lo sforzo di stabilire un contatto fra noi, di erigere ponti sui baratri che separano un io dall'altro. La sessualità riguarda, in definitiva, l'immaginazione”.

Chi scrive è consapevole di aver sinora descritto esclusivamente la sessualità maschile e di non aver parlato di quanto invece la narrativa femminile più recente stia offrendo una visione molto più complessa e comunque problematica del sesso, come nel caso di Sally Rooney, che negli anni è diventata la portavoce della fluidità sessuale (racconti incentrati su coppie aperte, esperienze bisessuali, rapporti che transitano dall’amicizia all’amore e poi di nuovo all’amicizia).

Oltre la Rooney e senza l’ambizione di poter essere esaustivi, prendiamo a modello un altro testo, Il buon vecchio sesso fa paura, raccolta di racconti del 2016 della psicoanalista Arlene Heyman, che risulta calzante e solo apparentemente sembra essere in antitesi con la riflessione di Wallace.

L’autrice racconta in modo del tutto inusuale la vitalità sessuale, la seduttività e il desiderio prorompente di donne ultrasettantenni, cioè di quella fase di vita che solitamente è descritta dalla nostra cultura in modo desessualizzato o, all’opposto, attraverso lo sguardo tipicamente maschile della pornografia, con l’aggiunta di una componente freak propria della perversione sessuale, nominabile solo se risibile e ascrivibile al campo del feticismo esotico (viene in mente la categoria gilf, “grandma I’d like to fuck”).

Nonostante la Heyman restituisca all’anziano la sua forza sensuale, il titolo della raccolta è la sintesi perfetta di un percorso culturale che parte da Portnoy, passa per Wallace e termina nel mondo disincarnato delle relazioni virtuali, senza il bisogno di feticizzare la tecnologia e assumerla a discriminante dell’evoluzione della sessualità. 

La paura della vicinanza, l’ansia del corpo, la ricerca di barriere protettive e di tempi dilatati che permettano la conoscenza in un luogo di sospensione com’è il mondo virtuale, ha dunque le sue radici in qualcosa di atavico. Il buon vecchio sesso fa paura, è così sin dall’alba dei tempi.

PrecedenteContro l’empatia o quasi
SuccessivoADHD