La violenza radicata

La violenza radicata

Fra pochissimi giorni si terrà una delle ricorrenze che hanno più valore (sociale, culturale e politico) della nostra epoca, la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

Un tema complesso, che ormai da anni viene attaccato da più fronti: dai gruppi che si oppongono alla “dittatura del politically correct”, esprimendo un contrasto reazionario che paventa una presunta diffusione della censura contro coloro che si oppongono alle lotte di chi rappresenta istanze un tempo minoritarie, ai movimenti maschilisti e misogini (incel, redpillati, MRA). 

Il 25 novembre, sia nel contesto istituzionale, sia sui social evoca risposte problematiche, spesso poco pensate, che se sviscerate consentono di comprendere una confusione categoriale evidente.

Molti Comuni o altre istituzioni pubbliche, infatti, stanno proponendo come modo di contrastare la violenza di genere, la diffusione di corsi per la difesa personale. Un tipo di intervento che è volto più a contenere il danno, che a intervenire direttamente sul problema. In altri termini, una risposta difensiva a un contesto percepito come immutabile, nei confronti del quale sopravvive chi si sa difendere, che testimonia la rinuncia a poter indagare e cambiare la cultura della violenza a monte. 

Dello stesso tenore, i trend che si stanno diffondendo su TikTok sull’Ugly Privilege, cioè il presunto privilegio che le donne “non canonicamente belle” avrebbero, perché meno colpite da molestie e commenti inopportuni sui social network o per strada. Oltre a non essere vero, questo tipo di discorso è molto preoccupante, perché descrive come privilegio il minor rischio di subire una violenza. Come potete intuire, la retorica è la stessa: il contesto è immodificabile e chi ha minori probabilità (sia chiaro, presunte) di essere aggredito è descritto in una posizione di potere, un potere donato dal Fato, casuale, fondato su nessuna competenza o capacità relazionale. 

In questo contesto, è utile ribadire quale possa essere la funzione della Psicologia. Molti psicologi collaborano con l’ambito giuridico, ma spesso si dimentica la differenza di ruoli e obiettivi che le due discipline hanno.

Se compito della Legge è punire il colpevole, proteggere la vittima e assicurarsi che il crimine non si verifichi più, la Psicologia ha come finalità la comprensione delle dinamiche relazionali che sottendono la violenza.

Una finalità spesso osteggiata da molti, che vedono nella comprensione di tali dinamiche un modo per giustificare l’autore di violenza o di colpevolizzare la vittima, che così subirebbe una vittimizzazione secondaria

Questa ostilità verso l’analisi psicologica deriva dalla confusione categoriale e di mandato, che finisce per attribuire alla Psicologia le stesse funzioni della giurisprudenza e della medicina: stabilire colpe e danni, oppure definire cosa è normativo e cosa è patologico.

Tuttavia, la Psicologia perde completamente la sua efficacia e le sue possibilità di sviluppo delle culture e dei contesti, nel momento in cui si pone come disciplina normativa.

Non è compito della Psicologia stabilire cosa è giusto e sbagliato, per il semplice fatto che già altre istituzioni hanno questo mandato. La Psicologia permette di comprendere cosa intanto intendiamo per violenza e in secondo luogo cosa la violenza rappresenti entro una specifica relazione. 

Poter indagare i vissuti consci e inconsci dell’autore di violenza, permette di accedere, ad esempio, alle emozioni più frequenti portate dagli uomini violenti, come la recriminazione e la vittimizzazione. Il vissuto rimanda a una impotenza percepita, un’impossibilità di non reagire aggressivamente all’altro, descritto come carnefice che costringe all’agito violento.

Sullo stesso versante, poter indagare le motivazioni inconsce delle donne che restano a lungo entro rapporti violenti, permette di esplicitare le fantasie di sottomissione, di salvezza e - anche qui - di impotenza percepita, che spesso rendono così radicato il bisogno di restare entro la dinamica violenta, che si dipana in un gioco di aggressioni e contro-aggressioni infinite, senza via d’uscita.

In questo senso, la peculiarità dell’intervento psicologico permette il cambiamento, contribuendo alla diffusione di una cultura che possa uscire dal vissuto d’impotenza così profondamente condiviso dalle istituzioni, dall’opinione pubblica e da chi entro rapporti violenti sta quotidianamente.

La nostra speranza è che tutti i vari ambiti coinvolti possano cooperare, pur mantenendo la propria indipendenza disciplinare, evitando che lo psicologo si faccia giudice o che il giudice si faccia psicologo. 

Crediamo che soltanto attraverso questo concerto d’intenti e di funzioni sia possibile intervenire nelle culture e nelle relazioni violente, affinché si arrivi un giorno a non aver più bisogno di giornate celebrative per testimoniare una situazione che si fa sempre più intollerabile.

PrecedenteUna stanza piena di gente
SuccessivoContro l’empatia o quasi