Il paradosso della scelta

Il paradosso della scelta

Ciascuno di noi compie un numero elevato di scelte, dalle più insignificanti (cosa preparo per cena?) alle più influenti (che lavoro voglio fare?). Prendere decisioni sulla propria vita e sul proprio futuro spesso richiede molta energia mentale, coinvolge processi cognitivi, ma anche motivazioni profonde e dipende da tanti fattori ambientali e personali differenti. 

A volte la scelta fra due opzioni può sembrare apparentemente liberatoria, come accade nel monologo iniziale di Trainspotting, nel quale la voce di uno Ewan McGregor in fuga dice allo spettatore di scegliere la vita, intendendo con essa i valori ed i comfort dell’esistenza borghese, che tuttavia appaiono claustrofobici e mortali tanto quanto l’autodistruzione indotta dall’eroina. La perdita di qualsiasi riferimento morale rende le scelte uguali fra loro e la vita stessa priva di senso. Drogarsi è solo una delle opzioni possibili.

Il tema della scelta fu affrontato fra ‘800 e ‘900 tanto in ambito filosofico (Kierkegaard), quanto in ambito letterario (Svevo e Joyce) o sociologico (Bauman). Il fulcro delle riflessioni riguardò il passaggio da modelli produttivi a scarsa mobilità sociale, come quelli preindustriali, al mito del libero arbitrio, secondo il quale ciascuno di noi può emanciparsi dal suo contesto di origine e diventare ciò che vuole. Questa infinita possibilità di opzioni, tuttavia, porta alla paralisi della scelta.

Zygmunt Bauman, ad esempio, sosteneva che la nostra società offre opportunità potenzialmente illimitate di sviluppo personale, incentrate però su un concetto abusato e mistificato, quello della libertà. Se è vero che siamo liberi di scegliere fra tanti scenari, siamo vincolati ad un unico obbligo morale: scegliere. 

Arriviamo dunque al paradosso della scelta che lo psicologo americano Barry Schwartz teorizzò nel 2004, sostenendo che l’abbondanza di opzioni di scelta può influire negativamente sulla nostra felicità. Schwartz cominciò ad elaborare la sua tesi partendo da un semplice esperimento. A due gruppi composti da studenti universitari venne chiesto di valutare due scatole di cioccolatini. Al primo gruppo venne data una scatola con 6 cioccolatini, al secondo una composta da 30 cioccolatini. Coloro che disponevano di una scelta minore di possibilità rimasero più soddisfatti dai cioccolatini che avevano ricevuto (avevano in media “un sapore più buono”), rispetto al gruppo che aveva una scelta più ampia.

Secondo lo psicologo americano, quando abbiamo una scelta minore, siamo più soddisfatti di ciò che ci viene dato. Lo sviluppo tecnologico, l’evoluzione societaria e la diffusione capillare dei social network - che non solo ci offrono infinite possibilità materiali, ma anche infiniti modelli estetici, morali e politici di riferimento - hanno reso sempre più difficile prendere decisioni consapevoli e gratificanti.

Il vissuto di non aver mai raggiunto il massimo potenziale, o quello di non essere in grado di scegliere chi diventare, sono spesso alla base di alcune forme d’ansia e di depressione, sempre più frequenti.

Ormai da parecchi anni, intere fasce della popolazione, soprattutto quelle più giovani, vivono una condizione di sospensione che incide pesantemente sul proprio futuro. Progetti scolastici, prospettive relazionali e sentimentali, programmi di sviluppo di carriera si sono negli ultimi decenni ridimensionati e in alcuni casi sono del tutto stagnanti. Di contro, alla crisi strutturale che impedisce di costruire percorsi solidi, con tappe esistenziali e professionali certe e definite, non corrisponde una narrazione culturale consolatoria o che offra strumenti emozionali per gestire la paralisi. Permane nella nostra cultura l’invito a scegliere, l’obbligo a “essere qualcuno” che porta a nuovi fenomeni, ad esempio all’aumento delle richieste di diagnosi psichiatriche fra le fasce più giovani della popolazione, che in assenza di altri riferimenti identitari, si trincerano dietro l’etichetta diagnostica.

Forse occorre fare una riflessione più profonda: rimandare l’ansia di scegliere chi diventare, ad un certo grado, può portare benefici. Abbiamo aperto con un monologo e chiudiamo con un altro, stavolta quello del film The Big Kahuna, ispirato ad un articolo della giornalista Mary Schmich, nel quale Phil (Danny DeVito) dice:

Non sentirti in colpa se non sai cosa vuoi fare della tua vita. Le persone più interessanti che conosco a 22 anni non sapevano cosa fare della loro vita. I quarantenni più interessanti che conosco ancora non lo sanno”.

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