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Questa volta, anziché proporre un caso clinico tratto dalla letteratura scientifica faremo riferimento al racconto La persona depressa di David Foster Wallace
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Da sempre la psichiatria, e oggi anche le neuroscienze, riconducono la schizofrenia principalmente a tare genetiche
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“Dovresti uscire di più ed incontrare persone”
“Non buttarti giù, sono certo che ne uscirai”
“Perché non provi a fare un po’ di sport?”Potrei continuare all’infinito nel compilare il prontuario dei consigli che il senso comune dispensa alle persone che vivono episodi depressivi più o meno gravi.
Di queste espressioni, chiunque abbia vissuto periodi della propria vita nei quali l’umore era sotto le scarpe, ne ha sentite diverse. Soltanto negli ultimi anni, tuttavia, si sta sviluppando una reazione stizzita verso queste frasi stereotipate. Reazione che, nel suo intento originario, sarebbe orientata alla diffusione di una cultura della depressione, fondata sulla consapevolezza che il male di vivere non sia semplicemente una carenza di motivazione, quanto una condizione psichica profonda e dilaniante che non si risolve con i precetti del buon confessore.Eppure sembra che in questo proposito di sensibilizzazione manchi l’approfondimento di ciò che sperimenta emozionalmente chi interagisce con la persona depressa. Ancor meglio, manca completamente un’analisi del senso relazionale di quelle frasi di senso comune.
“La persona depressa viveva un terribile e incessante dolore emotivo, e l'impossibilità di esternare o tradurre in parole quel dolore era già una componente del dolore e un fattore che contribuiva al suo orrore di fondo.
Disperando, dunque, di descrivere il dolore emotivo o di esprimerne l'assolutezza a chi la circondava, la persona depressa descriveva invece circostanze, passate e attuali, legate in qualche modo al dolore, alla sua eziologia e causa, sperando se non altro di riuscire a esprimere agli altri qualcosa del contesto di quel dolore, la sua - per così dire - forma e struttura. I genitori della persona depressa, per esempio, che avevano divorziato quando lei era piccola, l'avevano usata come una pedina nei loro giochi morbosi. Da piccola, la persona depressa aveva necessitato di cure odontoiatriche, e ciascun genitore aveva preteso - a buon diritto, date le ambiguità medicee legali della normativa sul divorzio, aggiungeva sempre la persona depressa descrivendo la dolorosa battaglia fra i genitori riguardo alle spese per le sue cure odontoiatriche - che fosse l'altro a pagare. E la rabbia velenosa di ciascun genitore per il meschino, egoistico rifiuto dell'altro a pagare ricadeva sulla figlia, costretta a sentire e risentire da ciascun genitore quanto l'altro fosse egoista e incapace di amare. Tutti e due i genitori erano benestanti e ciascuno, a tu per tu con la persona depressa, aveva detto che, naturalmente, al momento di sborsare per tutte le cure odontoiatriche di cui la persona depressa necessitava non si sarebbe tirato indietro aggiungendo che era, fondamentalmente, una questione non di soldi o di dentatura ma di «principio». E la persona depressa si premurava sempre, cercando da adulta di descrivere a un'amica fidata le circostanze della battaglia relativa ai costi delle cure odontoiatriche e il dolore emotivo che quella battaglia le aveva lasciato in eredità, di concedere che poteva darsi benissimo che agli occhi di ciascun genitore si trattasse davvero di quello (cioè di una questione di «principio»), anche se purtroppo quel «principio» non teneva in nessun conto le esigenze o i sentimenti della figlia nel ricevere il messaggio emotivo che per i genitori quel meschino avere la meglio sull'altro era più importante della sua salute maxillofacciale e dunque rappresentava, visto da una certa angolazione, una forma di trascuratezza o di abbandono per non dire di maltrattamento bell'e buono, un maltrattamento chiaramente legato - qui la persona depressa aggiungeva quasi sempre che la sua terapeuta concordava su questo giudizio - alla cronica disperazione senza fondo che lei da adulta sopportava ogni giorno e nella quale si sentiva intrappolata senza scampo. Questo non era che uno degli esempi. La persona depressa inseriva mediamente quattro richieste di scuse ogni volta che raccontava al telefono alle amiche di sostegno questo tipo di dolorose e lesive circostanze del passato, nonché una sorta di preambolo dove cercava di descrivere quanto fosse doloroso e spaventevole non sentirsi capace di tradurre in parole neanche il dolore straziante della depressione cronica e dover invece ricorrere al racconto di esempi che potevano risultare, si premurava sempre di ammettere, tediosi o autocommiserativi o farla sembrare una di quelle persone con l'ossessione narcisistica per la propria «infanzia dolorosa» e «vita dolorosa» che sguazzano nelle proprie miserie e insistono a propinarle tirandola noiosamente per le lunghe ad amiche che cercano di dimostrare sostegno e incoraggiamento, e le annoiano e le disgustano”.
Questa volta, anziché proporre un caso clinico tratto dalla letteratura scientifica, faremo riferimento a quel meraviglioso quanto agghiacciante racconto di David Foster Wallace, intitolato appunto La persona depressa, contenuto in Brevi interviste con uomini schifosi, raccolta disturbante ed esemplare della meschinità della natura umana.
Anzitutto un avvertimento. La persona depressa non è ciò che propriamente sceglieremmo come lettura d’intrattenimento. Il bisogno di svagarci, la voglia di staccare dalla routine lavorativa, il desiderio di allontanare qualsivoglia stress dalle nostre menti non facilitano certamente l’immersione nella complessità del racconto, che David Foster Wallace ha deliberatamente scelto di rendere ostico per motivi ben precisi.
Parlando del racconto perlomeno non rischiamo di spoilerare e dunque inimicarci il lettore. La persona depressa, infatti, non parla di nulla, intendendo in questo senso che non racconta eventi, non segue una trama, non ha alcun colpo di scena, né soprattutto alcuna evoluzione dei personaggi. Tutto sembra sospeso in un eterno istante reiterato all’infinito. Un primo elemento che già ci fa intuire l’ambizione del racconto di Wallace.La persona depressa è un lungo soliloquio di una donna che parla alla sua terapeuta (l’unico personaggio che ha una fine inattesa) dei suoi sentimenti, delle sue paranoie, dei suoi pensieri ossessivi.
Nel corso di tutto il racconto ci sono tre Enti, dati per astratti sin dall’inizio, che sostengono la narrazione: la persona depressa (che non ha nome), la terapeuta (che non ha nome) ed il Sistema di Sostegno della persona depressa, cioè un gruppo di amiche e conoscenti che la persona depressa contatta quotidianamente, su invito della terapeuta, per continuare a raccontare i suoi drammi interiori senza soluzione di continuità.
Wallace sceglie di non dare un nome a questi personaggi per due motivi. Da una parte l’astrazione rievoca certa modellistica psicoterapeutica, che potremmo rappresentare graficamente come un triangolo:
La persona depressa
La terapeuta Il Sistema di Sostegno
È un modo che permette all’autore di ironizzare su una diffusa tendenza a tecnicizzare l’analisi da parte di alcuni modelli terapeutici.
Il secondo motivo è però più importante. Il lettore non deve in alcun modo identificarsi con nessun personaggio. L’identificazione con questa o quella maschera, impedirebbe di far emergere i veri protagonisti del racconto, che sono il linguaggio e lo stile di pensiero della persona depressa.
Foster Wallace, infatti, si propone un progetto visionario: raccontare la depressione come significante. Sin dalle prime pagine del racconto si intuisce che ciò che è interessante non è quello che accade, né il tipo di emozioni che la persona depressa racconta, quanto il complesso linguistico che compone e dà ritmo al discorso. Ci si ritrova così in un lunghissimo flusso di coscienza fatto di digressioni, elucubrazioni, reiterazioni, flashback, incisi e rimandi.
Il lettore fa una fatica immensa a seguire la narrazione - come probabilmente avrete percepito dall’estratto del racconto letto in precedenza - ed è proprio ciò che l’autore desidera. Entrare dentro la forma mentis depressiva significa perdere i riferimenti temporali, l’ancoraggio a eventi concreti, per inoltrarsi e sprofondare nell’oscurità informe e omogenea del pensiero del depresso, che è razionalizzante, ma che è allo stesso tempo dominato da un’unica qualità emozionale, che si ripete all’infinito e che sembra non avere vie d’uscita.C’è solo un passaggio nel racconto di Wallace, in cui il lettore crede per un attimo di poter uscire e prendere aria, per poi ritrovarsi ancor più devastato. La persona depressa sta parlando al telefono a una delle amiche che compongono il Sistema di Sostegno, che scopriamo essere malata di cancro. Un dato di realtà sconcertante che, tuttavia, è fagocitato dal monologo della persona depressa, che continua a descrivere minuziosamente i suoi pensieri, il suo senso di colpa, le sue ferite, mentre l’amica, affaticata dalla malattia, continua ad ascoltarla eroicamente.
In sintesi, Wallace non vuole solo parlare della sofferenza della depressione, ma soprattutto vuole far sentire al lettore il senso di impotenza, di noia e di angoscia che la depressione evoca in chi ascolta. Ed è proprio quel senso di impotenza che porta il senso comune a propinare consigli pratici - che sembrano decontestualizzati e dunque insensibili - come reazione più o meno aggressiva al vissuto dell’altro, in una dinamica relazionale complessa, nella quale le strategie difensive e di distanziamento dall’angoscia non riguardano solo chi vive il disagio psichico, ma anche chi ci entra in rapporto.
Creare una cultura della depressione allora non significa solo criticare lo stereotipo sociale verso la condizione di depressione, ma anche sviluppare competenze emozionali per relazionarsi con una sofferenza con cui è difficile empatizzare.
Avere a che fare con la depressione non è semplice non solo per chi vive l’esperienza depressiva, ma anche per chi l’ascolta e percepisce la relazione con l’altro come un vicolo cieco, nel quale sembra impossibile intervenire.In questo senso, la depressione non è riducibile a una condizione di “malattia” e basta, ma rivela la dinamica relazionale nella quale l’altro, come il terapeuta, è allo stesso tempo il contenitore e l’elemento di realtà che permette di produrre un cambiamento.
La depressione è prima di tutto un vissuto emozionale che si fonda sull’impotenza. Un’impotenza che allaga la relazione e che a livello transferale finisce per colonizzare i vissuti dell’altro. Le reazioni di noia e di aggressività sono dunque una risposta al vissuto depressivo, spesso agite, ma comunque pensabili nello spazio terapeutico, in vista di un cambiamento del modo di essere recriminatorio, vittimistico o fatalista che la depressione spesso propone.Se il vissuto depressivo vorrebbe obbligare l’altro a chiudersi nella stessa impotenza per controllarlo o produrre reazioni attese, come la rabbia, pensare il vissuto entro la relazione crea uno spazio di sospensione per far emergere quello che sembra sepolto da coltri di tristezza, il desiderio.
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Recuperare il desiderio, oltre le svalutazioni e le disillusioni del pensiero depressivo, è uno degli obiettivi centrali dell’intervento psicologico.