“Homo homini lupus”
Thomas Hobbes, citando Plauto
“Homo sum, humani nihil a me alienum puto”
Publio Terenzio Afro
Il dibattito su egoismo e altruismo è antico quanto la società umana, come dimostrano le citazioni dei due più importanti commediografi romani, Plauto e Terenzio.
L'idea che l’uomo sia spinto da un istinto egoistico di sopravvivenza e sopraffazione da sempre è stata controbilanciata nella nostra cultura dal concetto di appartenenza al genere umano, dunque al riconoscersi nell’altro, nel proprio simile e per estensione nell’intera specie.
La diatriba fra i due poli dell’egoismo e dell’altruismo è uscita con il tempo dall’indagine meramente filosofica e poetica, per divenire materia della scienza, non solo delle scienze sociali, ma anche della biologia evoluzionistica.
La linfa originaria del dibattito fu estratta a forza dalle teorie darwiniane, male interpretate sin dalle origini. Il destino di Darwin è stato segnato da subito dal pericolo di sovra-interpretazioni che lo stesso padre della biologia moderna tentò con tutto sé stesso di eludere, con scarsi risultati.
La mente umana, infatti, oltre ad avere una tendenza teleologica molto resistente - il pensiero che ogni attività naturale abbia una finalità e che dunque sia in qualche modo guidata, se non da un motore trascendente, da forze intrinseche volte a raggiungere un fine ultimo - è spinta a categorizzare il mondo in posizioni opposte e autoescludenti.
Non solo Darwin non disse mai che la selezione naturale permette la sopravvivenza del più adatto, ma semplicemente la sopravvivenza di chi si adatta ai cambiamenti ambientali più o meno casuali, senza superlativi, ma non intendeva nemmeno sostenere che ci fosse una contrapposizione fra la sopravvivenza dell’individuo e quella della specie.
La sopravvivenza dell’individuo permette l’evoluzione della specie, così come la sopravvivenza della specie è ciò che garantisce la sopravvivenza del singolo, in una relazione circolare nella quale è difficile intravedere punti di partenza e di arrivo.
Lo stesso Freud fu altamente influenzato dalle elaborazioni post-darwiniane, quando nella sua definizione di Io, Es e Super-Io, immaginò pulsioni innate individuali, alla ricerca di piena gratificazione, “calmierate” dalle istanze sociali, familiari e culturali che si esprimevano sotto forma di regole morali interiorizzate, attraverso le quali il Super-Io limitava il perseguimento del piacere egoistico, al fine di permettere l’adattamento del singolo al contesto sociale, grazie alla mediazione dell’Io, una sorta di amministratore fra le due forze opposte.
Questa visione ha favorito l’idea che l’essere umano sia di base spinto dal proprio egoismo e che i comportamenti altruistici siano artefatti, il prodotto della civiltà che limita l’espressione pulsionale degli individui per non incorrere nel pericolo della distruzione reciproca fra esseri umani.
Eppure pensiamo per un momento alla nascita. Ciascuno di noi è nato uscendo dal calore e dalla protezione del grembo materno, per accedere al mondo esterno grazie all’aiuto di qualcuno (la madre, un parente, un’ostetrica). La nostra prima comunicazione è stata sotto forma di pianto, dunque di richiesta disperata di accudimento. Per molti anni siamo cresciuti grazie alle cure dei genitori, da cui dipendevamo totalmente, affinché non solo il nostro corpo, ma anche il nostro cervello potesse svilupparsi. L’assenza di tali cure - come tante ricerche psicologiche hanno dimostrato - portano alla malattia, al trauma e in casi estremi alla morte.
Quando si dice che siamo esseri sociali, non intendiamo metaforicamente. Siamo materialmente e psicologicamente dipendenti dalla relazione con l’altro, un altro che per la nostra sopravvivenza sacrifica tempo, energie, libertà individuali. A volte ciò ha un prezzo, come i vissuti depressivi post-partum della madre che prova emozioni molto contraddittorie nei confronti del proprio figlio. I vissuti sono il ponte relazionale tra gli individui e possono avere accezioni diverse: possiamo provare gioia per la nascita di un figlio, ma anche un vissuto di onnipotenza per il quale il figlio è un nostro possesso; possiamo, d’altra parte provare disprezzo per quello stesso figlio, proprio perché dipende in modo così totale dalle nostre cure.
D’altra parte, assistiamo costantemente a scene di violenza e sopraffazione, dalla guerra ai maltrattamenti infantili, dagli omicidi ai genocidi.
Più che essere contrapposti, l’egoismo e l’altruismo, la sopraffazione/competizione e la collaborazione, appaiono come forze compresenti nel genere umano.
Dare la vita e dare la morte si compenetrano e generano in noi enorme confusione. Com’è possibile sacrificare sé stessi per permettere la sopravvivenza di un altro essere umano e allo stesso tempo distruggere interi gruppi umani per accaparrarsi risorse o per odio razziale?
La cultura individualista nella quale siamo immersi, ci spinge a pensare che la differenza risieda nella mente dell’individuo, nelle sue tendenze specifiche: ci sono persone più egoiste e altre più altruiste.
Basta guardare a come i documentari storici mainstream raccontano il Nazismo. Non tanto l’esito di fattori culturali occidentali, quanto l’esito della psicopatia di uomini al potere deviati. Così, il sadismo di Hitler offusca tutti quegli elementi culturali che hanno permesso l’Olocausto: le teorie razziste anglosassoni, antecedenti all’elaborazione nazista; l’industrializzazione occidentale, che ha permesso lo sviluppo di armi sempre più letali; la morte seriale e anonima introdotta dalla Prima Guerra Mondiale, nella quale i soldati non erano più eroi con nomi e cognomi da ricordare, ma numeri mandati al macello sul fronte, da celebrare come militi ignoti; la trasformazione della guerra da ambito per soldati di mestiere (come lo erano le guerre napoleoniche), a teatro di distruzione dei civili (a partire dalla Grande Guerra, sino ai giorni nostri).
Le teorie evoluzionistiche più recenti, tuttavia, stanno finalmente superando la contrapposizione fra istinti individuali e sopravvivenza della specie intesa come genere umano nella sua interezza, un concetto piuttosto astratto per comprendere i comportamenti sociali.
Negli ultimi decenni, infatti, la teoria dei gruppi sociali sta permettendo di comprendere in che modo possano coesistere tendenze cooperative e competitive. Se gli individui presi singolarmente avrebbero maggiori possibilità di sopravvivenza se perseguissero esclusivamente il proprio benessere personale, i gruppi sociali altruistici hanno, a lungo termine, maggiori possibilità di sopravvivenza rispetto a quelli che presentano un’alta competizione interna fra i membri. I paesi occidentali sono esempi di gruppi sociali fondati sulla cooperazione: la maggioranza della popolazione non commette crimini e contribuisce al gruppo. Al loro interno esistono comunque i free rider, cioè coloro che perseguono l’interesse personale, sfruttando però i vantaggi dell’appartenenza al gruppo sociale altruistico (ad esempio, gli evasori fiscali che beneficiano comunque dei servizi pubblici). Nonostante ciò, sono una minoranza, che non mette in discussione la coesione del gruppo.
La competizione emerge semmai quando sono i gruppi sociali a contrapporsi tra loro, come nel caso delle guerre, ma anche delle aziende che tentano di distruggere i competitor con tutti i mezzi disponibili.
L’analisi biologico-evoluzionistica, tuttavia, sembra essere giunta a conclusioni che la Psicologia ha già evidenziato da tempo.
Il concetto di cultura locale (Carli e Paniccia, 1999) permette di comprendere bene come le logiche competitive e quelle collaborative possano caratterizzare i gruppi sociali, a seconda di quello che è “il processo collusivo specifico di una determinata organizzazione, ossia il sistema delle reciproche simbolizzazioni affettive del contesto di chi ad esso partecipa”.
Ciascuna organizzazione, dunque ciascun gruppo sociale, costruisce delle rappresentazioni condivise del contesto, che sono emozionalmente connotate.
Se ad esempio, i membri di un’organizzazione percepiscono che il rapporto con un altro gruppo si fondi sulla contrapposizione fra amico e nemico, ci saranno maggiori probabilità di un esito competitivo della relazione, sino agli estremi più distruttivi, come nel caso delle guerre.
Più il sistema delle “reciproche simbolizzazioni affettive del contesto” è fondato su vissuti sofisticati e complessi di appartenenza al gruppo e del rapporto con l’altro, maggiori sono le possibilità di costruire culture collaborative e produttive.
Se la biologia ci dice che egoismo e altruismo sono entrambe spinte innate della specie umana, la Psicologia permette di comprendere che cooperazione e competizione sono due modi di percepire il rapporto con gli altri gruppi, o il rapporto tra membri appartenenti allo stesso gruppo. Sono dunque due “costruzioni sociali”, non date una volta per tutte, ma scelte in modo più o meno consapevole.
L’analisi dei vissuti condivisi all’interno del gruppo permette di comprendere meglio i comportamenti messi in atto dalle diverse organizzazioni. È evidente che un conflitto armato fra due paesi si fondi sulla relazione primitiva amico-nemico. È altrettanto evidente che la collaborazione fra paesi - come nel caso del periodo post-bellico novecentesco - ha prodotto benessere, diffusione dei diritti e miglioramento della qualità di vita.
La contrapposizione fra egoismo e altruismo, dunque, non riguarda la “psiche individuale”. Riguarda le diverse culture locali, il sistema di significati che i gruppi attribuiscono a sé stessi, agli altri gruppi e alle loro funzioni.