Questa cosa spetta a me

Questa cosa spetta a me

I problemi che arrivano negli studi di psicoterapia si tingono di contemporaneità. Una di queste tinte è il vittimismo di chi pretende. Cerco di parlarne attraverso il lavoro con Federica.

La domanda assume la forma della pretesa, fin dalle prime battute.  Giorno, orario e tariffa vengono assunti come terreno di esercizio del proprio potere. I limiti che il setting analitico chiede di rispettare per poter lavorare sono i limiti che la società chiede di proteggere per vivere insieme. L’esperienza del limite è faticosa ma anche imprescindibile per lo sviluppo di qualunque impresa, dal fare una torta al farsi una vita. 

Federica, giovane donna di 30 anni, evita il confronto con questa esperienza, sente che ne uscirebbe distrutta, si sente vessata da orologi e specchi. Il tempo che corre, il corpo che cambia la perseguitano e lei se ne sente vittima. Costruisce relazioni sentimentali nelle quali il partner la soddisfa simmetricamente in ogni suo bisogno, così come il padre, pronto a fornirle tutto ciò che desidera. Laureata in psicologia, procrastina l’ingresso nel mondo del lavoro perché non accetta di confrontarsi con la realtà frustrante del mercato neoprofessionale. Lei vuole il lavoro dei sogni ma non scende a compromessi. Nella relazione analitica sembra cercare la conferma della propria visione del mondo ma fa esperienza della differenza.

In questo rapporto più che in altri, sento di dover presidiare il limite e stanarla per confrontarla con ciò che non sta costruendo, con l’erosione delle risorse, il consumo di ciò che è possibile, pensandola, almeno io, abbastanza capace da poter attraversare tale dolore.

Federica è cresciuta con un padre raccontato come superuomo, che tutto può e tutto sa. 

Ciò che pare non sappia fare è sostenere la separazione della figlia. La veste del supporto, del “ci penso io che faccio prima”, del “non ti affaticare che ho una soluzione”, sa essere inizialmente confortevole, ma rapidamente stretta e soffocante.

La sostituisce ed accompagna in ogni azione di vita da Federica definita “adulta” (rapporti con l’università, visite mediche, bollette da pagare, macchine da aggiustare). Nei colloqui di lavoro, Federica è sola e per questo non si presenta.  È difficile confrontarsi apertamente con questo. Infatti, Federica non lo fa e sposta su altri oggetti. Ecco come: nelle fasi del lavoro analitico più dure, si aggrappa alla preoccupazione per il proprio aspetto fisico. Nelle giornate nelle quali l’angoscia del fuggire la vita prende il sopravvento, fa acquisti di abiti costosi e stila liste di parti del corpo da rifare chirurgicamente: i denti, la bocca, il naso, i glutei. La bellezza, come suggerisce Naomi Wolf nel suo “Mito della Bellezza”, sostituisce la qualifica professionale per molte donne. L’estetista, la massaggiatrice, la palestra sono le uniche attività settimanali svolte come rituali sacri, preghiere di salvezza.

Federica è una donna profondamente disperata, senza speranza. Indossa il suo miglior sorriso ed il suo miglior vestito, si racconta come brillante e disinvolta, ma vive ogni giorno che passa l’angoscia della propria condizione. Nel sentirla parlare, questa tinta cupa non si percepisce. Lei sembra forte del non voler scendere a compromessi nella vita, lei otterrà quello che vuole ma alle proprie condizioni. Trova ingiusto il sacrificio richiesto per realizzare le sue imprese. Si sente vittima.

La vittima è l’eroe contemporaneo. In un tempo in cui tendiamo a decostruire tutto, l’innocenza della vittima non è ancora decostruibile. Ciò comporta che chi vuole avere ragione, e Federica cerca sempre di avere ragione, tenderà a scegliere la sedia della vittima come posto d’onore. L’innocenza, oltre al togliere la colpa, porta via anche la responsabilità dei propri vissuti, e di questa un lavoro analitico – così come la contemporaneità -, ha molto bisogno. La responsabilità dei propri vissuti è la chiave del cambiamento, non ci sono altri a cui delegare.

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