Time Out

Time Out

Mio figlio - sei anni - racconta che un compagno, durante una sessione di gioco sfrenato, è stato portato in un angolo della classe a pensare. Questo spazio è collocato distante dai giochi e dalle attività, nonché dai bambini. Al centro, una sedia chiamata, per l’appunto, sedia del pensiero. È il luogo del disonore per i bambini, mi spiega, ci si va dopo una malefatta. Invitato a continuare, racconta che è lì che i bambini vengono messi in punizione perché dalla sedia del pensiero non ci si alza, lì non si gioca.

Il racconto mi intristisce ma non stupisce. La sedia del pensiero è presente in molte classi di nido e scuola di infanzia. È chiamata in diversi modi – sedia camomilla, sedia della riflessione, sedia della calma – e rappresenta una specifica tecnica educativa della quale vorrei parlare. Ciò che mi ha incuriosito è l’associazione tra pensiero e punizione. Non credo fosse nelle intenzioni dei suoi ideatori, ma è nel vissuto di chi questo strumento usa e “subisce”, per tanto è un’associazione che vale la pena indagare.

Chissà se qualcuno domanda al bambino cosa ha infine pensato, chissà se quell’accadimento che interrompe l’azione organizzativa nella classe diventi occasione di pensiero condiviso, chissà se il bambino, seduto su quella sedia lontano dal gruppo, effettivamente pensi – sai mai – e comprenda il senso di quella sospensione del gioco. Decido di domandare all’esperto: “Sei mai stato sulla sedia del pensiero?”, chiedo a mio figlio. Mi risponde “Sì”. Quando cerco di approfondire le ragioni, dunque verificare l’utilità dello strumento, mi risponde “Ho fatto arrabbiare le maestre”. Lì comprendo meglio a chi serve la sedia del pensiero; i bambini, prima di noi, lo capiscono benissimo.

Pensandoci, e senza lasciarmi prendere - troppo - dal polemismo naif, credo di poter dire che la mia giornata lavorativa si sviluppi quasi interamente su una sedia-del-pensiero. Anche io sono in uno spazio separato dalla socialità, un setting dedicato e di sospensione dell’azione sociale, ma c’è una non trascurabile differenza: non sono sola.

La tecnica del Time Out è di derivazione anglosassone ed è espressione della cultura comportamentista. In quest’ottica l’intervento è per lo più orientato alla riduzione dei comportamenti disadattivi e si rivela funzionale in certi contesti. Ma in questo? La letteratura sul tema presenta lo strumento come utile alla regolazione emotiva dei bambini durante un’escalation di rabbia e di impulsività. Queste le indicazioni: individuare uno spazio neutro – su quanto sia discutibile la connotazione neutra di alcunché, magari dedicherò uno spazio a parte - e distante dal gruppo, senza giochi e strumenti, utilizzare un timer la cui vista è condivisa dall’adulto e dal bambino con un minutaggio standardizzato (un minuto per bambini di tre anni, tre minuti per bambini di quattro e cinque minuti per bambini di cinque anni). In quello spazio di solitudine il bambino dovrebbe potersi calmare. Come? Qualora il bambino reagisca con pianto e lamenti, si invita all’ignoramento. Nel caso in cui protesti, rifiutando rabbiosamente il Time Out, il minutaggio di sospensione dovrà aumentare di un minuto ogni dieci secondi di ritardo.

So per certo che chi usa questa tecnica nelle scuole (non solo con bambini piccoli ma anche nel contesto della disabilità) non applichi alla lettera le indicazioni, ma si limiti a recepire la struttura di base fatta di interruzione, isolamento e ignoramento.

Il Time Out è presentato come tecnica utile alla regolazione emotiva. Ma come avviene questo processo?

La regolazione emotiva è un costrutto che tiene insieme corpo e mente. Questa funzione è costruita negli anni in cui le esperienze sono senza ricordo cosciente ed è costituita da consapevolezza, accettazione e comprensione di ciò che si prova, insieme alla capacità di tradurre tutto ciò in comunicazioni accettabili per il contesto. La psicoanalisi propone di assegnare alla parola, il terzo tra corpo e mente, la funzione di portavoce della soggettività emotiva e principale agente trasformativo. Questa funzione si sviluppa nelle relazioni primarie, in quel faticoso lavoro che fanno gli adulti di decodifica e nominazione del mondo interno dei bambini.

I bambini isolati, durante il Time Out, quale possibilità hanno di dare parola a ciò che provano o hanno provato? Sulla sedia del pensiero raccontano di sentire rabbia e umiliazione e non hanno modo di dare senso a quello che è avvenuto.

Queste strategie educative, inserite dal Consiglio Europeo tra le VEO, Violenze Educative Ordinarie , esercitano la disaffezione a quella pratica faticosissima ed inevitabile del passare attraverso, restare dentro la difficoltà, magari con qualcuno che ti fa da guida.

Il Time Out è un tempo fuori nella misura in cui sposta fuori di sé l’attenzione: dal “cosa accade dentro” al “come impatta fuori”, senza che le due aree vengano messe in rapporto.

Ciò che è auspicabile, sia nel lavoro educativo con i bambini che nel lavoro psicologico con gli adulti è un Time In, un tempo dentro. Questa è la sedia del pensiero dalla quale ora vi scrivo e quella sulla quale i clienti, nelle consulenze psicologiche, sono invitati a sedersi.

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