“Sento una voce che non esiste”, me lo dice così, piena di terrore e domande, ma una si impone più delle altre: “Sono pazza?”
Ho lavorato con lei due anni, a cavallo tra le medie e le superiori. Leida è una ragazza brillante come ce ne sono poche. Mi ricontatta poco prima di compiere 18 anni, piena di paura per quello che stava vivendo. È lì che confiderà il suo grande segreto: “Ho sentito le voci per anni, tutto il giorno, tutti i giorni. Non ne ho mai parlato per paura della reazione degli altri. Le ho silenziate per diverso tempo ma da alcuni mesi sono tornate ed ho paura”.
Sentire le voci è un fenomeno che, se visto dal vertice psichiatrico, assume la forma di sintomo riferibile a diversi quadri diagnostici (psicosi, disturbi dissociativi e altri). Nel senso comune, sentire le voci è considerato uno dei sintomi cardinali della psicosi e per questo profondamente stigmatizzato dagli uditori e dal loro contesto di riferimento. Leida ha tenuto il segreto per moltissimi anni. Mentre percorro questi pensieri, ricordo che non tutti gli uditori di voci sono psichiatrizzati, cioè non tutti si pensano malati e si rivolgono ad un medico per delle cure. Come è possibile? Come convivere con questa esperienza?
Mi pongo queste domande e mi torna in mente un convegno organizzato dall’Associazione Nazionale Sentire Le Voci. Gli organizzatori ed esperti erano seduti dietro un lungo tavolo, parlavano dell’esperienza e di come entrarci in rapporto. Solo alla fine - effetto wow! - riveleranno ai partecipanti che sono tutti uditori di voci.
Cosa ho capito attraverso quell’esperienza e con lo studio che ne è seguito.
Un uditore di voci, cioè una persona provvista di un udito ricco di input vocali non dimostrabili, è ritenuto patologico quando non vive in armonia con le voci, non patologico laddove invece c’è armonia. Le voci diventano allucinazioni uditive, solo dopo il contatto con gli operatori della salute mentale. In altre parole, il problema risiede non nelle voci in sé ma nel rapporto che si instaura con il sentire le voci. Per questa ragione indagare l’esperienza soggettiva del sentire le voci è di rilevanza fondamentale; solo l’esperienza soggettiva porta una persona a rivolgersi - o meno - a dei curanti. Le voci non vanno eliminate tout court, come si elimina lo streptococco, non vanno silenziate a prescindere, vanno primariamente ascoltate ed interpretate.
Leida non sembra avere bisogno di dire altro per porre la questione. Sentire le voci è sufficiente per evocare quale sia il problema. Le ho proposto, come ho imparato dalle parole di chi convive o ha convissuto per anni con questo fenomeno, di parlarmi del come fossero queste voci e del loro contenuto.
La fenomenologia del sentire può comprendere, suoni musiche, rumori e voci. Le voci possono essere bisbigliate o sussurrate, rapide o lente, interne – percepite dentro la mente – o esterne – provenienti da fuori, come da un’altra stanza -. Hanno un timbro e un volume, possono essere maschili, femminili, ben discriminabili e identificabili come appartenenti a persone conosciute. Il contenuto può essere imperativo e minaccioso, consolatorio, può essere un borbottio che commenta ogni azione o supportivo e ottimista. Potrei continuare a lungo perché la variabilità del fenomeno è vasta, almeno quanto lo è quella emozionale. Difficilmente sentiremo un uditore di voci dire “ascolto le voci”. Per quanto nella quotidianità ognuno di noi attribuisca alla voce una valenza espressiva e comunicativa, quando questa appare inaspettatamente come in questo fenomeno, la valenza comunicativa scompare e si fa avanti lo stigma associato alla follia. In alcuni casi le voci possono impartire ordini circa comportamenti ai quali l’uditore si sente spinto, come per esempio farsi del male o suicidarsi, e questo è il caso di Leida. Comprensibile come sia difficile per lei ascoltare.
Il processo psicologico a fondamento della costruzione della voce è una sorta di espulsione del mondo interno, che assume una forma, in alcuni casi visiva, in altri uditiva. È qualcosa che non è stato elaborato a livello simbolico e torna dissociato dalla coscienza. Guarire per un uditore di voci non significa liberarsi delle voci. Diversamente, nel percorso di un uditore , viene incoraggiata la possibilità di ricercare le connessioni tra le voci, le emozioni e gli eventi di vita.
La paura, l’impotenza e la vergogna che Leida sperimenta nel suo rapporto con le voci sono metafora della relazione di potere esistente in un periodo della sua vita, un passato di grandi conflitti familiari in cui non credeva possibile esprimere ciò che sentiva veramente.
Il punto di svolta è spesso rappresentato nel cambiamento del rapporto con le voci: laddove Leida sarà in grado di riappropriarsi della propria esperienza emotiva e lascerà alle spalle il ruolo di vittima passiva, diventando protagonista.