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Quella della madre preoccupata è una delle posizioni psicologiche più comuni e accettate socialmente. La preoccupazione del genitore per il proprio figlio - che sia per motivi medici, psicologici o comportamentali, non cambia molto - è un topos clinico. La nostra cultura accoglie con benevolenza questa emozione, quasi fosse un accessorio indispensabile al corredo materno. Quale genitore non vorrebbe il meglio per la propria creatura e chi non farebbe tutto quello che va fatto pur di contribuire al benessere della prole?
La preoccupazione, secondo la definizione di Renzo Carli e Rosa Maria Paniccia, è una neo-emozione che si sviluppa come evoluzione della diffidenza, intesa quale forma passiva dell’emozione del controllo. Quando una persona con cui siamo in relazione sfugge al nostro controllo diretto, si mettono in atto una serie di dinamiche emozionali, che derivano dal contesto, in questo caso il rapporto fra un genitore e il proprio figlio e le aspettative sociali che sono attribuite a questi ruoli.
La preoccupazione è un’emozione molto tenace. In prima istanza, si riversa sull’oggetto della preoccupazione (il figlio) e se non ha l’effetto desiderato, coinvolge un terzo, come ad esempio un terapeuta. Lo scopo emozionale inconscio è costringere l’altro a sottomettersi alla preoccupazione, pur di non essere costretti a sentire il malessere della persona preoccupata, che evoca a sua volta un malessere in chi la ascolta. Un terapeuta che si trova di fronte una madre preoccupata che lo assilla con la sua preoccupazione, potrebbe cedere emozionalmente alla richiesta della madre, accettando di vedere il figlio in terapia, oppure trovando altri modi per costringere il figlio ad assumere la posizione che la madre desidera inconsciamente, quella del soggetto malato che ha bisogno di essere controllato per il suo bene. Lo scopo, infatti, è ripristinare lo stato di regressione nel quale il figlio è dipendente e bisognoso delle cure materne, stato che in alcuni casi è possibile solo se subentra un’autorità, ad esempio quella dello psicologo, che certifica il malessere del figlio e dunque autorizza la madre a imporre il suo controllo, veicolato dall’emozione della preoccupazione.
Donatella porta in terapia un tipo di preoccupazione specifico, che la psichiatria definisce ipocondria verso gli altri. È preoccupata che il figlio abbia un problema medico molto serio, perché sin da bambino ha sofferto di coliche dolorose. Il problema è che il figlio sostiene di star bene, di non avere sintomi e non vuole farsi visitare. Donatella chiede dunque al terapeuta di “trovare un modo per farlo andare dal medico”.
La richiesta iniziale viene approfondita tramite la seduta terapeutica, nella quale emergono spunti interessanti per comprendere cosa stia avvenendo.
In primo luogo, Donatella ha altri due figli. Figli che hanno, a differenza del primogenito, reali problemi clinici: la figlia femmina ha un problema di anoressia; il figlio più piccolo ha costanti disturbi cardiaci. Tuttavia, Donatella non sembra preoccupata per loro, la loro storia emerge raramente nelle sedute. La sua attenzione sembra ossessivamente rivolta all’unico dei figli che ostinatamente le dice di star bene.
In secondo luogo, Donatella descrive il primogenito, Luca, come un vero disastro. Ad oltre 30 anni di età, non ha un lavoro stabile e non sembra preoccupato di cambiare lavoro spesso. Inoltre, non ha costruito una carriera di successo. Di più, la realizzazione professionale non sembra essere il suo vero scopo nella vita.
Questo figlio inetto - secondo le parole di Donatella - ha tuttavia una storia molto ricca alle spalle. Ha vissuto negli Stati Uniti per 4 anni, si è da poco fidanzato con una ragazza asiatica e ne è innamorato, parla molte lingue, perde un lavoro ma ne trova subito un altro. E poi ride sempre, sembra essere inspiegabilmente felice.
Questa insopportabile felicità di Luca, per Donatella è sintomo di inettitudine, come se non fosse in grado di comprendere la gravità della sua situazione, professionale e medica. Donatella sembra voler urlare in faccia al figlio “che te ridi? Non vedi che va tutto a rotoli?”.
D’altronde Donatella è sempre stata una donna di successo. Realizzata professionalmente, madre di 3 figli, nonostante suo padre - il nonno di Luca - l’abbia sempre disprezzata. Al netto di tutti gli sforzi fatti, non ha mai ottenuto la sua approvazione. Donatella, figlia minore di due, ha sempre vissuto all’ombra della primogenita, sua sorella, esaltata dal padre come l’orgoglio di casa, mentre a lei è sempre spettato il ruolo della figlia costantemente sotto esame. Nonostante i successi e gli sforzi, non era mai abbastanza per suo padre.
Ad un certo punto della terapia, Donatella fa una richiesta al terapeuta rispetto a quello che gli psicologi chiamano setting. La donna ha l’impressione di non avere contenuti sufficienti da portare in terapia ogni settimana. Sarebbe meglio incontrarsi una volta ogni due settimane, in modo che lei possa accumulare fatti da raccontare, evitando di far perdere tempo a entrambi e avere sedute vuote, prive di contenuti.
Lo psicologo ha di fronte a sé due opzioni. Colludere con la richiesta della paziente, spostando gli incontri a cadenza bisettimanale e non interrogandosi oltre. Al contrario, potrebbe invitare la paziente a non prendere una scelta subito e approfondire il senso della sua richiesta.
L’aspetto interessante è il motivo della richiesta: Donatella vuole essere preparata, avere tante cose importanti da dire e vuole il tempo per accumularle. Il vissuto inconscio è quello di essere una paziente degna di lode per il suo terapeuta, una che non gli fa perdere tempo inutilmente, ma che gli mostra il suo valore, preoccupandosi di avere “cose da raccontare” sufficienti a riempire una seduta.È qui che si realizza il transfert sul terapeuta dei modelli relazionali della paziente. Il terapeuta è investito della funzione paterna che Donatella attribuisce inconsciamente al padre nella vita reale. Quella rincorsa per essere la figlia perfetta, adorata dal padre, il bisogno di essere riconosciuta e apprezzata come l’orgoglio di casa, si sposta nella relazione terapeutica con l’espressione del bisogno di essere riconosciuta dallo psicologo come paziente valida, brava ed eccellente.
In assenza di un setting definito, cioè di quell’insieme di regole pratiche, ma anche simboliche, che definiscono la relazione fra terapeuta e paziente, lo psicologo non avrebbe potuto interpretare quello che stava accadendo con Donatella. Le regole sono gli orari delle sedute, la durata, la cadenza, ma anche il principio per il quale l’obiettivo della terapia non è intervenire sul figlio, che nella stanza di terapia non è presente fisicamente, ma sui vissuti consci e inconsci della paziente.
A questo punto, l’ipocondria verso il figlio di Donatella può essere compresa meglio se si integra con i vissuti che lei ha verso suo padre. Luca è suo figlio primogenito, come sua sorella lo era per suo padre. Donatella, disprezzata nella vita, potrebbe aver desiderato inconsciamente di gratificare suo padre, per dimostrargli il valore mai riconosciuto come figlia. Suo figlio primogenito sarebbe stato il dono che avrebbe riparato tutto. Un figlio ambizioso, con una carriera esemplare, un nipote finalmente degno di amore e apprezzamento, che avrebbe compensato le mancanze di Donatella.
Tuttavia, Luca mette in discussione il ruolo che Donatella avrebbe voluto lui interpretasse. Non ha ambizioni di carriera, sembra più interessato a godersi la vita che a dimostrare di essere perfetto e a cercare riconoscimento in famiglia. Un totale disastro per Donatella, che testimonia l’ennesimo fallimento verso quel padre tanto temuto e così avaro di amore verso di lei.
L’ipocondria ha dunque una doppia funzione. Costringere Luca nella posizione del malato le garantisce un ruolo sociale, quello della madre che si occupa del bambino sfortunato e che intanto può plasmare e controllare. D’altra parte, le permette di riprodurre con suo figlio il rapporto vissuto con il padre. Luca diventa così inetto, è disprezzato da Donatella, è un “caso perso”, come lei ha sempre sentito di essere per suo padre.
Tuttavia, c’è un aspetto di sviluppo nel rapporto tra Donatella e Luca, che lo psicologo può comprendere alla luce del setting, del transfert e dei vissuti inconsci che Donatella esprime nelle sue relazioni esterne alla stanza di terapia.
Luca è così “insopportabilmente felice” perché propone un modo di stare in relazione diverso, che mette in crisi i legami familiari di Donatella. Il figlio, infatti, non sembra interessato a incentrare la sua vita sull’obbligo di avere una carriera sfavillante, quanto sul desiderio di esplorare il mondo, di conoscere più ambiti lavorativi e di costruire relazioni d’amore che non riguardano il riconoscimento sociale, quanto la condivisione con un partner con cui stare bene.Se il terapeuta si fosse fermato alla “diagnosi di ipocondria” di Donatella e l’avesse presa alla lettera, non avrebbe compreso quale fosse il senso della preoccupazione ipocrondiaca.
Spostando il piano dai sintomi ai vissuti, s’intravede un percorso di crescita per Donatella. Il vissuto intollerabile di avere un figlio desiderante, che sceglie cosa fare della sua vita, senza preoccuparsi dell’approvazione familiare, potrebbe essere il punto di partenza per esplorare il rapporto tra Donatella e suo padre, il senso di fallimento e disprezzo che ha vissuto con lui, ma anche la possibilità di mettere in discussione questi vissuti e cominciare a esplorare i suoi reali desideri, riferendosi a suo figlio Luca come colui che le ha mostrato una strada diversa e non come un inetto che reitera le dinamiche familiari note.La sospensione della preoccupazione, il pensiero non agito rispetto alla richiesta di Donatella di avere “contenuti sufficienti” per non annoiare il terapeuta, diventano agenti di cambiamento, se compresi e volti a parlare finalmente di ciò che Donatella desidera e non di ciò di cui Donatella si lamenta.
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