Fedro arriva sempre trafelato e spesso annulla la seduta perché in trasferta o alle prese con straordinari. Mi chiede spesso di spostare il nostro incontro da un giorno all’altro nella speranza – vana - di trovare uno spazio sicuro e protetto dalle interferenze del lavoro, una volta per tutte.
Vera mi porta un sogno: una sua cara amica, legata nell’immaginario ad un periodo di gioventù e scorribande, la guarda piangendo. Si sente abbandonata. Anche Vera prova qualcosa di simile quando ricorda malinconicamente la libertà vissuta prima di iniziare a lavorare nello studio di architettura del quale oggi è socia e nel quale ha incontrato la donna con cui ha costruito una famiglia.
Biagio insegna chitarra, scrive musica e canta. Da quando il progetto musicale è diventato fonte di sostentamento, non dorme la notte. Ha la sensazione di “dover battere il ferro finché caldo”, non può perdere tempo con il sonno quando è proprio durante la notte che riesce a scrivere canzoni.
Poi c’è Federica, ha trent’anni, brillantemente laureata in biologia, si definisce una nullafacente. Dice di “non avere bisogno di lavorare” perché dispone di fondi familiari pressocché illimitati. Non vuole fare lavori malpagati e faticosi. Cerca e aspetta il lavoro dei sogni, da molti anni, ma non esce più di casa perché preda di un’incomprensibile paura.
In ultimo Luigi, è un medico ospedaliero e si dimentica sempre il badge: perde il camice, lo dimentica in tintoria e quando rientra a casa, resta sveglio fino a tardi, con la speranza di recuperare il tempo perduto lavorando.
Che fai nella vita?
Ho selezionato solo alcune storie ma molte di più ne potrei raccontare. Queste persone utilizzano il lavoro come organizzatore della propria narrazione dei problemi. Di questo non mi stupisco. Domandare “che fai nella vita?”, non molto tempo fa equivaleva a chiedere chi sei, che ti piace, quali sono i tuoi valori, e soprattutto qual è il tuo valore. I filosofi Colamedici e Gancitano, nel loro “Ma chi ce lo fa fare”, scrivono:
“Per la maggior parte della storia umana, a lavorare sono stati cittadini, schiavi, servi, monaci di clausura o prigionieri, tendenzialmente per dovere, punizione e penitenza, e più di rado per amore di conoscenza o del potere. Si lavorava per necessità o coercizione, quasi mai per scelta, solo raramente con alacrità se non sotto lo sguardo dei padroni.”
L’orientamento al lavoro preindustriale era radicato nei ritmi organici delle stagioni; con il primo capitalismo, la fabbrica, l’illuminazione artificiale ed i suoi regimi di efficienza temporale interrompono la relazione di interdipendenza dei lavoratori e delle lavoratrici con la natura, catapultandoli nella promessa di un opulento benessere capitalistico. Ma qualcosa è andato storto. Le persone che incontro, il più delle volte, si raccontano rapite dal lavoro, con vite frenetiche e sfiancanti costrette tra una sessione lavorativa e l’altra. Altre volte, a sfiancare è la ribellione a questo mito del lavoro, che lo pretende fulcro dell’identità e della vita. Penso a quanto accade a l'insonne Luigi: lo si chiama revenge bedtime procrastination, una vendetta nei confronti del lavoro a discapito delle ore di sonno. Mi capita di frequente di incontrare persone che cercano psicoterapia per tenere il passo con le attese di performance scolastica e lavorativa, sostenere la pressione della frenesia quotidiana e trovare il coraggio di trasgredire ai precetti morali di quella che pare essere una nuova religione laica: il lavorismo.
Gli innamorati del proprio rapitore
Non se la passano meglio i lavoratori “fortunati”, quelli che amano il lavoro che fanno e che sono ben retribuiti per farlo. In quei casi si assiste ad un effetto paradosso, lavorare di più e con sempre minore differenziazione del tempo lavorativo e non lavorativo. Sono gli innamorati, spesso lavoratori culturali, quelli che per posizionarsi socialmente attraverso l’affaticamento per il lavoro – nuovo status symbol, come il sacrificio per i cattolici – lavorano sempre, di notte, di giorno, e lo fanno volentieri, innamorati del proprio rapitore. Questa cultura del lavoro rispetta la grammatica delle ossessioni: immagini o idee assediano (dal latino obsidere) al punto da isolare socialmente chi vive questa emozione. Ci si isola affettivamente dentro un luogo preteso sicuro, fatto di prevedibili cerimoniali, regole, routine, procedure. Come non pensare alla ripetitività delle giornate lavorative, l’invio massiccio di cv, l’aggiornamento di linkedin, la promozione di sé o dei propri prodotti.
La tana
Mi torna in mente il racconto di Kafka, La tana: anche noi, un po’ roditori e un po’ architetti, costruiamo affannosamente il nostro luogo sicuro al riparo dai nemici, confortevole e pieno di ogni bene materiale. Fino a che un fischio si insinua nel silenzio mortale di questo rifugio e cresce via via di intensità.
Il fischio sono i sogni, i badge dimenticati, lo svegliarsi stanchi, quel film che alla fine non hai visto, i libri da leggere sul comodino, l’appuntamento rimandato e l’amica che non aspetta più la tua chiamata. Il fischio è una buona notizia, quando c’è. È l’occasione per interrompere l’assedio, lasciando entrare nella vita altro oltre l’illusoria gratificazione della ripetizione del lavoro.
Ascoltiamo il fischio.