L’invidia al contrario

L’invidia al contrario

Una donna invidiosa: si definisce tale.

Nadia ha poco più di quarant’anni, è titolare di un piccolo e curato negozio di composizioni floreali in una città francese, vive sola e ha molti amici. Nadia soffre – dice – di una mancanza: il non aver costituito una famiglia tradizionale con un figlio ed un partner. È preda di un vissuto di fallimento che si rinnova nel confronto con sua madre, donna che sul ruolo sociale di madre oblativa e sempre disponibile ha fondato gran parte della propria identità.

Durante l’ultimo colloquio, Nadia mi racconta di un episodio verificatosi durante il viaggio in treno che la portava a trovare una cara amica fuori dalla Francia.

Condivideva lo scompartimento con due giovani donne, circa trent’anni. Mi racconta di quanto fosse stata infastidita dal continuo ciarlare delle due che le impediva di leggere il libro che aveva con sé. Prosegue raccontando l’oggetto della conversazione: entrambe progettavano una convivenza con i propri fidanzati ed una di loro sembrava molto sicura che di lì a poco avrebbero anche avuto un bambino. Erano, sembravano dire, sul “treno” giusto. Sarebbe stato sufficiente attendere e questo sarebbe arrivato a destinazione, seguendo le stazioni previste (amori, case, cose, figli, amen).

In altri momenti Nadia forse avrebbe domandato con irritazione alle due ragazze di fare silenzio, appellandosi alla buona educazione o qualche altro orpello conformistico. In quell’occasione non lo ha fatto. È rimasta in silenzio, ha riposto il libro nella borsa, e si è messa in ascolto, riconoscendo dentro di sé tutta la dinamica invidiosa.

Chi sono gli invidiosi?

Per il senso comune, l’invidia si riferisce a uno stato d'animo o ad un’emozione per cui, in relazione a un bene o ad una qualità posseduta da un altro, si prova astio, un risentimento tale da desiderare il male di colui che possiede quel bene o quella qualità. Si pretende che l’invidiato sia tale in ragione di qualità reali, misurabili e oggettivamente riscontrabili anche dallo sguardo di un altro.

Gli invidiosi del Purgatorio di Dante scontano la loro pena indossando un mantello di panno ruvido e pungente e piangendo lacrime attraverso gli occhi cuciti da filo di ferro – l’orribile costura – che impedisce loro di vedere (dal latino in-videre, letteralmente “guardare contro”) con gli occhi malevoli con cui in vita guardavano agli altri.

Invidia come diagnosi

Nel senso comune l’Invidioso esiste in natura. Trattiamo l’invidia al pari di un tratto personologico e il tratto personologico - anch’esso - al pari di una cosa del mondo naturale. È la stessa teoria a fondamento dei vizi capitali che connotano caratteristiche pretese naturali di alcune persone: gli iracondi, i lussuriosi, i golosi, gli accidiosi, i superbi, gli avari e, appunto, gli invidiosi.

Con poco sforzo potremmo individuare un conoscente definibile invidioso e al quale attribuiamo determinate caratteristiche stabili nel tempo, che chiamiamo personalità. Ma anche ciò che chiamiamo personalità non è altro che una fortunata sequenza di accomodamenti contestuali del nostro sentire, pensare e agire particolarmente resistente al cambiamento per delle ragioni tutte da esplorare. È questo che dà senso al lavoro psicologico.

L’invidia viene trasformata in una diagnosi. Qui recupero un articolo dal titolo “L’invidia Ironica” dello psicoanalista Renzo Carli, articolo nel quale propone una lettura molto critica:

Invidiare, come abbiamo già visto, è una diagnosi rivolta a una persona specifica, non una dinamica emozionale della quale capire il processo. Se l’invidia viene trattata quale diagnosi, che concerne specifici individui - gli invidiosi - e non altri, nella diagnosi di invidia ci si può mettere ogni “cosa cattiva”. (…) Tutto questo, in sintesi, sembra indicare la scarsa comprensione del processo invidioso da parte di molti studiosi che non sanno dire “perché” alcuni vengono presi da questa emozione, vissuta certamente come problematica.”

o come rifiuto di mete prescritte

Torniamo a Nadia. Non ci è utile pensarla come donna invidiosa, diversamente è interessante esplorare come mai in quel treno ha provato quell’emozione.

La giovane età delle due passeggere, la maternità attesa, la convivenza e la vita di coppia: l’invidia qui appare come emozione evocata dal sentirsi esclusa da qualcosa di desiderabile e idealizzato. Sono queste le mete conformistiche che la società – e ciò che fino ad oggi ha funzionato come tradizione - pone come tappe obbligate. Allo stesso tempo è proprio Nadia a definirle come “fastidiose interruzioni” alla voglia di leggere un buon libro. Nadia non sarebbe stata molto contenta di stare nei loro panni. Oggi è una donna adulta, con la possibilità di viaggiare, trascorrere tempo con le amiche, leggere. Qualcosa che non è scontatamente presente nelle vite delle idealizzate delle due passeggere al suo fianco. Alle volte ci affidiamo conformisticamente a desideri ritenuti socialmente accettabili ma che non lo sono ugualmente per noi. Su questo, sempre Renzo Carli, propone una lettura diversa: l’invidia può esprimere, al contrario di ciò che sembra, la svalutazione della cosa che si invidia. La si invidia nell’altro ma non se riferito a sé. Una donna può non invidiare la maternità, la giovinezza, la vita di coppia? L’attacco invidioso, il livore rivolto all’oggetto invidiato, talvolta, è un tentativo di rendere accettabile il nostro rifiuto rispetto all’oggetto invidiato, il tentativo di fuggire le prescrizioni sociali e godersi quel che si è, quel che si ha.

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