Siamo nell’aprile del 2004 e la giovane studentessa universitaria, Louise Ogborn, sta quasi per terminare il proprio turno al McDonald’s di Mount Washington, in Kentucky, dove lavora per pagare, senza l’aiuto della famiglia, le proprie spese universitarie.
Louise è una ragazza giovane, timida ma molto determinata e intelligente. Ha una carriera brillante davanti a sé, grandi aspirazioni in ambito medico e un’ottima rete di relazioni sociali. Louise è sempre gentile e sorridente con tutti e anche a lavoro sembra essersi adattata rapidamente.
Quel giorno di aprile, tuttavia, Louise viene chiamata dal suo superiore, una manager di nome Donna Summers, e viene invitata a entrare in un piccolo ufficio situato nel retro del negozio.
Donna è al telefono con un uomo che si è identificato come “agente Scott”. E’ molto preoccupata, osserva severamente Louise e le dice improvvisamente di spogliarsi. Louise è sconcertata, non sa per quale motivo si trovi lì e perché le stiano chiedendo di togliersi gli abiti da lavoro.
Donna le spiega superficialmente la situazione. Al telefono c’è un agente di polizia che le ha comunicato che è avvenuto un furto nel negozio quello stesso pomeriggio. Una madre e una figlia sono state derubate e hanno indirizzato i loro sospetti su una “giovane ragazza, con i capelli castani e lunghi, che lavora lì”. La descrizione data dall’agente Scott è generica, ma Donna comprende subito che si sta parlando di Louise.
L’agente Scott ha chiamato con urgenza la sede in cui si è verificato il furto, rassicurando Donna sul fatto che delle volanti della polizia stessero per arrivare ad arrestare la ragazza. Nel frattempo, però, si rendevano necessarie una serie di azioni di perquisizione e verifica, che avrebbero dovuto svolgere direttamente i dirigenti del fast food.
L’agente Scott, infatti, è in comunicazione diretta con la direttrice di quello stesso fast food, tale Lisa Siddons, cui Donna Summers è sottoposta. Sarebbero gli stessi responsabili del locale ad aver dato l’assenso a tali pratiche di controllo sulla ragazza: un’ispezione andava fatta e anche di fretta.
Nelle successive 3 ore, l’agente Scott, semplicemente con la propria voce, guiderà una delle più scandalose truffe telefoniche avvenute nella storia degli Stati Uniti. Louise fu costretta a spogliarsi completamente sotto l’occhio perquisitore (e persecutore) di Donna e di Kim Dockery, la viceresponsabile del fast food. Venne da loro ispezionata ripetutamente, sino a quando Scott non riuscì a convincere Donna a chiamare il suo compagno dell’epoca, tale Walter Nix Jr., per farlo venire al locale a sorvegliare Louise, permettendole così di continuare a dirigere il ristorante fino alla fine del turno. A quel punto, Nix divenne il nuovo burattino di Scott. Su suo ordine, non solo toccò il corpo nudo di Louise, ma acconsentì ad avere un rapporto orale con la ragazza, pur non comprendendo bene in che modo questo avrebbe facilitato le indagini.
Soltanto a tarda sera, il manutentore del locale, Thomas Simms, anche lui invitato a sorvegliare Louise nel piccolo ufficio, non appena si mette in contatto con l’agente Scott inorridisce, comincia a insultare l’agente e invita la ragazza a rivestirsi e uscire dalla stanza. Thomas è sconvolto: urla a Donna che si tratta palesemente di una truffa e che le richieste dell’agente Scott sono da ritenere in qualsiasi caso intollerabili. L’agente Scott chiude la telefonata. Donna ha un’improvvisa epifania e una crisi di nervi. Louise, ormai distrutta, crolla in un pianto disperato.
Grazie all’intervento della polizia - quella vera - si scoprirà che dietro l’agente Scott c’era David Richard Stewart, che sarà poi incriminato per diversi capi d’accusa in relazione a quella che divenne celebre come la Strip search phone call scam, la truffa telefonica che lo stesso Stewart riuscì a portare a termine in decine di occasioni e in diversi Stati, camuffandosi dietro le mentite spoglie di un poliziotto.
Il caso divenne talmente celebre che, per spiegarne le motivazioni e la sequenza di eventi, venne scomodato lo storico esperimento che Stanley Milgram, psicologo sociale, condusse negli anni ‘60.
L’esperimento di Milgram era volto a dimostrare quanto l’obbedienza all’autorità fosse un fattore talmente potente da indurre le persone a compiere azioni che andavano contro la propria morale e contro l’incolumità di una persona più o meno estranea.
L’esperimento consisteva nell’assegnare a un soggetto sperimentale il ruolo di insegnante, con il compito di verificare la memoria di un altro soggetto, che aveva il ruolo di studente. A fianco dell’insegnante, c’era il conduttore dell’esperimento, uno scienziato, che aveva anche la funzione di dare consegne e indicazioni all’insegnante. Ad ogni errore di memoria fatto dallo studente, l’insegnante avrebbe dovuto girare una manopola, che controllava il rilascio di scariche elettriche di intensità sempre maggiori che colpivano lo studente, collegato a degli elettrodi. Più aumentava l’intensità delle scariche, più le reazioni di dolore dello studente erano lampanti, sino allo svenimento. L’insegnante non sapeva che lo studente, in realtà, stesse simulando i malori, in accordo con il conduttore dell’esperimento. Tuttavia, 6 soggetti su 10 indussero comunque le reazioni di dolore, nonostante ciò li mettesse molto a disagio. La forza dell’autorità rappresentata dal ricercatore prevaleva sull’etica e sul rifiuto di far male a qualcun altro.
Oltre a ciò, maggiore era la distanza fra insegnante e studente, maggiore era la percentuale di soggetti che accettavano di infliggere dolore. Se l’insegnante non poteva vedere, ma solo ascoltare le urla dello studente che riceveva le “scariche”, era più portato a seguire pedissequamente le istruzioni del ricercatore, rispetto a quelli che invece si trovavano nella stessa stanza con lo studente. Infine, più il ricercatore era vicino fisicamente all’insegnante, più l’insegnante seguiva le sue indicazioni.
L’esperimento di Milgram, tuttavia, oltre ad essere datato, sembra trarre conclusioni parziali, o comunque non generalizzabili. Ad esempio, nell’orribile esperienza di Louise Ogborn, le condizioni erano opposte a quanto desunto da Milgram nei suoi esperimenti: la vittima degli abusi era vicina, vicinissima agli esecutori della violenza; l’autorità che distribuiva ordini era invece molto lontana, nascosta dall’anonimato del telefono.
Chiunque stia leggendo la storia di Louise Ogborn per la prima volta, si starà certamente domandando perché sia potuta accadere. Gli elementi incomprensibili, adottando il buon senso, sono moltissimi:
- Perché nessuno si è domandato come fosse possibile che un agente di polizia, presunto o meno, desse ordini per telefono?
- Perché nessuno si è opposto, dichiarando semplicemente di voler attendere l’arrivo delle volanti?
- Perché nessuno ha percepito l’assurdità di effettuare una perquisizione per procura, senza la presenza fisica di un agente identificato e identificabile?
- Perché Donna Summers non ha prima cercato di parlare con la sua superiore, Lisa Siddons, con la quale fra l’altro aveva un ottimo rapporto (e che successivamente le dirà che durante la telefonata dell’agente Scott stava dormendo e che non sapeva nulla di quella storia)?
- Perché Nix non si è opposto alle pratiche di sesso orale, pur capendo che non avevano alcun legame con una perquisizione?
- Perché, soprattutto, nessuno si è preoccupato di chiedere alla diretta interessata, cioè Louise, se fosse vero quanto detto dall’agente Scott?
Tutte domande di buon senso, appunto. Eppure, quanto emerso dal processo giuridico dà ulteriori indizi sul perché queste domande non sono venute in mente alle persone coinvolte.
Il caso aprì un profondo dibattito, non solo sulle truffe e sul ruolo della pressione di un’autorità esterna, quanto sulla completa mancanza di protocolli chiari e precisi che permettessero ai contesti aziendali di affrontare situazioni ambigue come quella di Louise.
Leggendo adesso la ricostruzione, tutte le persone coinvolte - a parte Louise e Thomas, il manutentore che interruppe la situazione surreale, riportando tutti su un piano di realtà - sembrano essere completamente privi di pensiero logico, qualcuno direbbe preda della propria distrazione, stupidità, ignoranza, eccetera eccetera.
Eppure, in contesti anomici come lo sono le multinazionali come McDonald’s - contesti in cui esistono regolamenti formali, ma in cui sono assenti regole “informali” condivise entro legami professionali duraturi - è molto facile perdere il senso di quello che sta avvenendo.
Prima di tutto va compreso il contesto del fast food. Esso rappresenta il lavoro che, per eccellenza, nell’immaginario collettivo è rappresentato come “impiego temporaneo” (anzi, un vero e proprio ripiego per alcuni), il parcheggio a giornata di chiunque non stia investendo in uno sviluppo di carriera (o se lo sta facendo, lo sta facendo altrove), popolato da persone inaffidabili, non realizzate, oppure da giovani universitari poco motivati. In questo contesto, l’idea che il dipendente sia un nemico da controllare e di cui diffidare, è ampiamente diffusa. L’idea che anche una ragazza giovane e gentile potesse essere una ladra, è perfettamente coerente. Una ragazza con cui probabilmente nessuno è mai entrato in una relazione differente da quella del “datore di lavoro annoiato-dipendente che passa e poi se ne va”. Una relazione che non ha bisogno di essere esplorata, ma che si fonda interamente sulla diffidenza verso l’altro: da questi ragazzi ci si può aspettare di tutto.
In secondo luogo, più che l’autorità dello Scott-falso-poliziotto, colpisce l’autorità della catena di comando aziendale. Donna Summers e Kim Dockery rispondevano prima di tutto ai propri superiori. Superiori con cui avevano rapporti diretti, è vero, ma che erano anche abituati a percepire come figure lontane, nella perfetta rappresentazione del manager che ordina con una telefonata, che organizza con una mail, che non ha bisogno di riunioni in presenza o di relazioni dirette per disporre condotte, definire regole e di conseguenza definire il senso di ciò che è lecito o illecito fare nel contesto di lavoro.
E’ questo il vero fulcro dello scam organizzato dall’agente Scott. Ha saputo leggere con astuzia allarmante il sistema di relazioni di potere e delle modalità attraverso cui questo potere si esprime nelle multinazionali del junk food.
Sembra paradossale, ma la richiesta degli avvocati della difesa di Louise di definire protocolli di sicurezza chiari, è un modo per costruire senso entro contesti fondati su controllo, diffidenza e anomia. E’ solo comprendendo i riti e le istituzioni di tali contesti, che si comprende perché una situazione che altrove sarebbe stata risolta con il “buon senso", ha qui bisogno di essere definita tramite azioni sindacali.
Un orrore che è difficile possa verificarsi nuovamente in queste forme, ma che racconta molto bene una parte del mondo del lavoro odierno. Senza il bisogno di scomodare Milgram.