Dipendenza affettiva

Dipendenza affettiva

Siamo nella prima metà degli anni ‘70 del Novecento e Vernon Johnson, un prete episcopale molto attivo nel movimento degli Alcolisti Anonimi e nell’intervento con gruppi di uomini alcolisti, pubblicò I’ll Quit Tomorrow, un libro che ebbe un immediato e prorompente successo. Johnson non solo descrisse gli effetti dell’abuso di alcol sugli esseri umani, ma ampliò la sua analisi all’intero contesto familiare, che in qualche modo sosteneva e rinforzava i comportamenti di abuso.
Johnson si accorse che fra gli uomini alcolisti e le proprie partner c’erano ricorrenze relazionali che contribuivano attivamente al perpetuarsi della condizione di alcolismo. In particolare, le mogli degli alcolisti spesso rivelavano, a livello inconscio, aspetti di morboso accentramento attorno alle problematiche dell’altro, alimentando dinamiche interpersonali anomale che contribuivano al mantenimento dello stato patologico del paziente “designato”.

Johnson definì questa condizione con l’espressione codependency, co-dipendenza, un costrutto che ad oggi è considerato l’antesignano di quello della dipendenza affettiva.

Il concetto di dipendenza affettiva oggi è ampiamente abusato ed è utilizzato in associazione al narcisista patologico. Ne sarebbe la necessaria e complementare versione, una sorta di incastro perfetto su cui sono incentrate le diagnosi di criminologi, psicologi forensi ed esperti delle relazioni di coppia, che sembrano aver trovato la chiave di volta per spiegare qualsiasi disfunzione della relazione amorosa, grazie a queste due categorie dello spirito. Da una parte il manipolatore, dall’altra colui che non aspetta altro che essere manipolato, nel bisogno assoluto di conservare la relazione costi quel che costi.

Questa ipertrofia nell’uso del costrutto della dipendenza affettiva, tanto celebre nella rappresentazione odierna, deriva da un’opera di reificazione di un vissuto simbolico e relazionale in una serie di comportamenti e “tendenze” aspecifici e senza contesto.

Ma come si è passati dalla co-dipendenza alla dipendenza affettiva?

Dependence vs. addiction

Il primo aspetto interessante è che Johnson, introducendo la co-dipendenza, intendeva sottolineare il senso relazionale e sistemico della condizione dell’alcolista. I coniugi esprimevano certamente aspetti diversi all’interno del “sistema” (comportamenti violenti del marito, apprensione e annullamento di sé e dei propri bisogni da parte della moglie), ma in una relazione circolare e reciproca, nella quale la condizione patologica fungeva da collante e stabilizzatore. Le mogli degli uomini alcolisti sembravano mettere in atto una serie di comportamenti di controllo, volti a mantenere la relazione inalterata. Uno dei classici esempi erano le telefonate che le mogli effettuavano ai luoghi di lavoro del marito, per comunicare che il proprio compagno fosse ammalato, nascondendo così la sbornia all’esterno e permettendo che l’alcolismo non fosse mai manifesto e dunque un problema su cui intervenire. Oltre a ciò, l’apprensione morbosa per la condizione del marito sembrava rivelare una preoccupazione inconscia per la perdita del proprio ruolo di moglie e dunque della funzione di “assistenza al malato”, nell’impossibilità di pensare a sé stesse, prima ancora che ai propri mariti, in modo differente.

Questa dinamica circolare si perde completamente quando si passa al concetto di dipendenza affettiva. Come vedremo più avanti, la dipendenza affettiva più che essere descritta dalla letteratura odierna come vissuto inconscio, assume i connotati del consumo di sostanze, in cui l’oggetto del consumo è la propria identità.

È utile considerare che nella lingua inglese, la dipendenza come concetto generico è distinta lessicalmente dalla dipendenza da sostanze.
La dependence identifica “lo stato di bisogno da qualcosa o qualcuno” e rappresenta un generale rapporto di necessità o di subordinazione di un elemento rispetto ad un altro. L’origine è dal latino dependere, cioè “discendere da”, “essere in relazione necessaria”. Non ha una connotazione negativa, ma appunto dipendente dal contesto. Ogni neonato dipende dalle cure materne. Il lavoratore è dipendente dell’azienda. La riuscita della ricetta dipende dalle competenze del cuciniere, dalla qualità degli ingredienti e via dicendo.
La dipendenza non è dunque una condizione patologica, quanto un modo di stare in relazione, che ovviamente porta con sé significati diversi a seconda delle specificità di quella relazione. 

La dipendenza da sostanze, invece, è identificata dal termine addiction, che rappresenta quella condizione psicologica di “incapacità a fare a meno dell’uso, consumo e abuso di qualcosa”, in particolare di una sostanza. Anche quest’ultimo termine viene dal latino, in particolare da addictus, participio passato di addicere, che sta per “cedere” e nello specifico “cedere il proprio assenso”. Nel diritto romano arcaico (dato che l’istituto divenne già obsoleto in epoca repubblicana), l’addictus era il debitore che non aveva saldato il debito e di cui il creditore poteva disporre come meglio credeva, nel caso in cui dopo 60 giorni non avesse saldato quanto dovuto, sino a venderlo come schiavo.

Da questo significato originario, metaforicamente deriva lo schiavo delle sostanze. Colui che non solo “cede” all’impulso di bere o drogarsi, ma che in qualche modo perde la propria libertà, sottomettendosi alla sostanza di cui abusa. Tenete a mente questo aspetto. Colui che dipende da una sostanza, nel senso comune, perde tutto: il libero arbitrio, le relazioni, i contesti e in ultimo sé stesso e la propria identità.

A differenza della lingua inglese, l’italiano non ha distinzione lessicale tra i due termini. La “dipendenza” rappresenta entrambi i significati e la confusione semantica ha portato anche a una confusione categoriale che è alla base dell’odierno senso associato alla dipendenza affettiva.

Dipendenza come vissuto o Love addiction?

In psicoanalisi, la dipendenza come costrutto psicologico, si esprime, sin dall’epoca di Freud, come vissuto inconscio che non solo contribuisce alla sopravvivenza fisica del neonato, ma anche allo sviluppo psichico e relazionale tanto del bambino, quanto dell’adulto. In particolare, i rapporti d’amore hanno, a gradi diversi, componenti “dipendenti”. In ottica psicoanalitica, la dipendenza non è una condizione patologica, quanto un vissuto attraverso cui leggere la specificità della relazione. 

Ma se la dipendenza è un vissuto inconscio, quando la dipendenza affettiva è stata reificata in un “sintomo” senza storia e senza contesto?

Nel 1995, esce il best seller di Robin Norwood, Donne che amano troppo. L’autrice abbandona il concetto di co-dipendenza di Johnson, che ancora conservava un’accezione relazionale, e sceglie non a caso di parlare di love addiction. Come tutte le altre dipendenze da sostanze, che schiavizzano l’individuo, la dipendenza affettiva - che l’autrice tratta non più in relazione all’alcolismo, ma all’uomo narcisista patologico - può essere identificata come tratto caratteriale universale, privo cioè di contesto. La relazione “tossica” fa da sfondo, ma non informa in senso bidirezionale e circolare l’insieme dei significati condivisi fra i due partner.

La dipendenza si caratterizza come tratto individuale, astorico, invariante ed è descritta alla stregua del consumo di sostanze. Le donne “dipendenti affettive” annullano sé stesse come fossero sotto l’effetto di una droga, ne diventano schiave (addicted, appunto). Soprattutto, la dipendenza non è più un vissuto inconscio, quanto un impulso innato e incontrollabile. Senza contesto, senza significati relazionali, la dipendenza è facilmente descritta come una patologia, una forza senza scelta e senza tempo, che accade, irrompe e devasta l’identità della donna “che ama troppo”, incapace di uscire dalla condizione di vittima, di fronte alle manipolazioni del maschio-carnefice. 

Una lettura delle relazioni d’amore che ben si adatta alla psicoterapia odierna e che favorisce quel processo di perdita di senso che, almeno in parte, contribuisce allo spaesamento di molte persone coinvolte in relazioni più o meno violente che non riescono a decifrare.

Obbligo e oblatività

Un altro modo per descrivere cosa avviene nei rapporti di dipendenza (o meglio, di co-dipendenza, riprendendo Johnson), è fare riferimento alle neo-emozioni dell’obbligo e dell’oblatività, descritte da Renzo Carli e Rosa Maria Paniccia.

Se il vissuto d’obbligo è facile da intuire anche dal senso comune, quello di oblatività è meno immediato.
L’oblatività rappresenta una variante dell’obbligo in funzione dell’altro, nella quale l’individuo “si obbliga per obbligare”. L’unico scopo è la totale soddisfazione delle esigenze dell’altro, senza ricerca di alcuna ricompensa, il che obbliga l’altro a una riconoscenza incondizionata.

Per descrivere questa neo-emozione, Carli e Paniccia fanno l’esempio che segue:

“Una coppia è seduta al tavolo della cucina e in un cesto ci sono due mele. Una è bella, grossa e lucida, l’altra è ammaccata e un po’ malandata. Entrambi allungano la mano per prendere una mela, ma si fermano. La moglie dice al marito: “scegli pure la mela che vuoi”. Il marito prende la mela grande e lucida. La moglie, stizzita: “sei egoista, ti sei preso la mela migliore, io non l’avrei mai fatto, avrei lasciato a te la mela più bella”. E il marito, ironico: “beh, è successo esattamente quello che volevi, no?”.

Questa scenetta rappresenta benissimo il vissuto recriminatorio di chi si annulla per il bene dell’altro, mettendo in secondo piano i propri desideri. La rinuncia a sé stessi, alla propria identità, e dunque la “posizione della vittima” non è semplicemente un abuso subìto, quanto un’emozione volta a obbligare l’altro a una fedeltà e riconoscenza incondizionata. Il famoso “io ti salverò” che tanto somiglia a “io posso esistere solo nel ruolo del salvatore”.
Entrare nel merito delle dinamiche inconsce delle relazioni violente, è sempre difficile. Spesso la violenza fisica e verbale di chi attacca aggressivamente oscura il senso relazionale della violenza condivisa.
Le posizioni di vittima (lato giuridico e sociale) o di dipendente affettiva come malata (lato medicale e psichiatrico) annullano la matrice relazionale della dialettica fra dipendenza e contro-dipendenza, o se vogliamo dirla in senso moderno, narcisista patologico-dipendente affettivo.

E in assenza di contesto, di relazione e di attenzione al vissuto, non c’è cambiamento possibile. Tutto ciò che resta è il compatimento sociale, che finirà per rafforzare e incistare la posizione oblativa, senza alcuna crescita psichica e senza alcuna trasformazione delle relazioni.  

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