Il diritto di non farcela: storie di calcio

Il diritto di non farcela: storie di calcio

E’ il febbraio del 2008 e Bojan Krkic è seduto sulla panca dello spogliatoio con le mani sullo stomaco. E’ da solo, i compagni di squadra sono già sul campo a riscaldarsi. Bojan prova una strana nausea, anche se non è la prima volta.
Qualche tempo prima era andato all’inaugurazione di una palestra di un suo amico. Al termine dell’inaugurazione le persone presenti si accalcano attorno a lui per chiedergli un autografo. La palestra è piccola e Bojan comincia a sudare, il maglioncino a collo alto inizia a farsi stretto, un senso di soffocamento lo pervade. Bojan va in bagno e prova a vomitare.
Quella sensazione sta tornando, ora che è solo dentro lo spogliatoio e lo attende il debutto che ogni bambino spagnolo ha sempre desiderato: esordire con la maglia della Roja, la Nazionale, e rappresentare il proprio paese sul campo da gioco.

Bojan ha solo 17 anni e ha avuto una carriera fulminante nelle giovanili del Barcellona. 850 reti segnate in pochissimi anni, numeri che nemmeno Lionel Messi, il giocatore più forte del mondo, è riuscito a raggiungere.
Bojan, ancora prima di esordire in prima squadra, era ritenuto proprio il nuovo Messi. Una condizione molto rara nel calcio: essere un idolo dei tifosi senza aver mai giocato nella massima serie. La sua parabola sembra proprio quella del predestinato, di colui che ha bruciato tutte le tappe per superare i propri limiti. Il corpo però è un limite invalicabile e adesso, seduto su quella panca, sta chiedendo il conto.

I membri dello staff della Spagna capiscono che qualcosa non va e chiamano il capitano, Andres Iniesta, colui che due anni dopo porterà la Nazionale spagnola sul tetto del mondo. Iniesta si siede vicino a Bojan e prova a tranquillizzarlo. E’ normale sentire la pressione, tutti gli esordienti ci sono passati, ma lui può farcela.
Bojan decide di parlare apertamente. Non è solo la nausea a preoccuparlo, si sente come in un topos cinematografico: lui è da solo in mutande di fronte ad una platea che lo guarda e ride di lui. Alla fine non scenderà in campo e la Nazionale, per non destare sospetti, dirà alla stampa che si è trattato di gastroenterite.

La carriera di Bojan da quel momento sarà un rapido declino. Risultati deludenti con il Barcellona, poi trasferimenti in contesti sempre più piccoli (prima la Roma, poi l’Ajax, poi il Mainz in Germania), alla ricerca della sua dimensione. Da predestinato a incompiuto, l’arco professionale di Bojan è la rappresentazione vivida di come il corpo e la mente cooperino quando la pressione è troppo alta. La storia di Bojan può essere letta come fallimento, ma anche come la ricerca del proprio benessere psicofisico, il bisogno e il diritto di non farcela.  

Alcuni anni prima (era il 2004), restai colpito da un trafiletto che apparve su un quotidiano sportivo. Soltanto poche righe che annunciavano la volontà di Sebastian Deisler, talento tedesco allora appena 24enne, di ritirarsi dal calcio per una forte crisi depressiva. Era la prima volta che leggevo una storia in cui il disagio mentale aveva un impatto così forte su un calciatore da comprometterne la carriera.

L’immaginario collettivo attorno al calcio è costellato di pregiudizi ancora presenti, rispetto ai quali è difficile costruire una contro-cultura nella quale la crisi di salute mentale possa essere percepita come un evento possibile quanto un infortunio muscolare.
Diventare un calciatore ai massimi livelli è il sogno di ogni bambino e da qualche tempo anche di molte bambine. I calciatori poi sono privilegiati economici. Il sacrificio e la capacità di reggere le pressioni, nella narrazione comune, sono impliciti da accettare come contraltari del successo. Da questo punto di vista, il calciatore che non solo sente di non farcela, ma che non ama profondamente quello che fa e che magari vive un conflitto interno, è identificato come un perdente, se non proprio un eretico.

In questo senso, la storia di Christoph Metzelder è quanto di più controintuitivo possa esistere nel mondo del pallone. Per anni bandiera dell’Arsenal e capitano della Nazionale tedesca, una volta giunto a fine carriera, rivelò con sgomento dei media che si sentiva incredibilmente sollevato. Il calcio per lui, più che una profonda passione coltivata sin dall’infanzia, era diventato uno spauracchio. I livelli di stress raggiunti, le responsabilità, l’essere sempre al centro dello sguardo mediatico, lo hanno portato negli anni a desiderare di smettere e di dedicarsi ad altro. La fine della carriera, che per molti sportivi rappresenta un passaggio angosciante, per Metzelder è stata una liberazione dai fantasmi vissuti. 

Nel mondo del calcio, il tema della preparazione mentale è piuttosto diffuso. Questa funzione, strettamente connessa al benessere psicofisico dell’atleta, è svolta (e così dovrebbe essere sempre) da professionisti psicologi, ma purtroppo non avviene in tutti i casi. A volte alcune figure, senza avere una formazione psicologica riconosciuta e adeguata, trattano situazioni complesse, pur non essendo in grado né di intervenire quando il disagio mentale influenza le prestazioni, né quando distrugge in modo più ampio il benessere psicologico dell’atleta.
Da questo punto di vista, la figura dello psicologo dello sport diventa sempre più centrale. Alcune federazioni sportive stanno finalmente riconoscendo l’importanza di un intervento professionale competente all’interno delle società, ma la strada da percorrere è ancora lunga.
Certamente le storie di Bojan, Deisler e Metzelder ci raccontano che anche nelle professioni più desiderate ed esaltate, lo spettro del malessere può insinuarsi. Avere professionisti psicologi che conoscano dall’interno il contesto e le possibili conseguenze derivate dalle enormi pressioni vissute nel calcio non può che essere proficuo per gli individui e per i gruppi sportivi. Lo psicologo nel contesto sportivo è utile proprio perché interviene su fenomeni che hanno molte sfaccettature, migliorando il benessere sportivo, le prestazioni individuali e di squadra e - tramite interventi di prevenzione - salvaguardando i talenti che rischiano un drop out precoce, come avvenuto nel caso di Bojan e forse in modo ancora più rilevante nel caso di Deisler, ritiratosi definitivamente a 27 anni. 

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