Sindrome di Stoccolma: la rivoluzione del mondo in un attimo

Sindrome di Stoccolma: la rivoluzione del mondo in un attimo

Non ci si aspettava il sorriso, l’aspetto florido, la postura dritta. Ci si aspettavano movenze stordite, un volto emaciato, uno sguardo disperato. Le immagini di persone scampate ad un rischio estremo (la guerra, la deportazione, un sequestro) sono costruite a partire da proiezioni emotive. Ci si aspetta che l’immagine incarni la paura, la sofferenza fisica e psichica, la violenza. E per la maggior parte delle volte il risultato è fedele all’attesa. Vedere Silvia Romano così distante dalla forma che ci si aspettava è stato uno shock. In questo spazio dissonante si sono riversate troppe parole. Esplose fuori, a torrenti, a riempire quella visione così scomoda. 

Impossibile comprendere adesso. Impossibile trarre conclusioni. Diciotto mesi di vita in condizioni così lontane dal mondo che conosciamo sono un contenitore di esperienze che è impensabile tradurre nell’immediato. Per tracciare il senso di quella esperienza ci vorrà un tempo privato di cui solo Silvia Romano potrà avere la misura. E quindi in questo articolo non ci occuperemo della sua vicenda, non tenteremo di interpretare il suo vissuto.

Abbiamo detto che la visione non ha rispettato l’immaginario. D’altra parte, accade molto di frequente che le persone che hanno subito un sequestro riferiscano di “essere state trattate bene”. Sembra una frase che si può comprendere facilmente e invece spalanca un orizzonte molto vasto, di cui fa parte anche la cosiddetta Sindrome di Stoccolma, che si sta invocando da più parti per “diagnosticare” anche l’imprevedibile reazione della Romano. Ma cos’è la Sindrome di Stoccolma?

Innanzitutto è interessante che questo costrutto diagnostico non appaia in nessun manuale clinico che si occupi di classificare e descrivere le affezioni psicopatologiche. Non per questo, tuttavia, perde la sua funzione essenziale, che è appunto quella di “nominare”, in un codice di segni riconoscibile, un complesso di comportamenti e sentimenti che marcano una loro stranezza, una loro problematicità. 

La Sindrome di Stoccolma deve il suo nome ad un episodio di sequestro di persone avvenuto a Stoccolma nell’agosto del 1973 durante una rapina alla sede della Sveriges Kreditbanken ad opera di un uomo di 32 anni, Jan-Erik Olsson. Quello che stupì gli inquirenti e i clinici che furono affiancati ai sequestrati dopo la liberazione per rilevarne le condizioni psicologiche (il sequestro durò 6 giorni), fu che gli ostaggi testimoniarono spontaneamente una imprevista alleanza emotiva con Olsson, con sentimenti di gratitudine e riconoscenza. Estensivamente, si è iniziato a parlare di Sindrome di Stoccolma come quel complesso quadro reattivo che ha come base lo sviluppo di sentimenti positivi nei confronti dei propri sequestratori, fino all’innamoramento. 

Quali sono le caratteristiche strutturali di questo quadro? Innanzitutto l’esistenza di un evento traumatico. La persona che viene sequestrata, a differenza di un protagonista della Casa Di Carta (il riferimento è solo in parte ironico), non decide deliberatamente di finire in una situazione di pericolo. In molti casi, come coloro che vengono sequestrati in zone dove ci sono conflitti politici violenti, i sequestrati hanno una precisa cognizione di cosa è giusto e cosa è sbagliato; della parte per cui parteggiano e dove vogliono stare. Nella Sindrome di Stoccolma sembra che questa valutazione venga sconvolta. L’ostaggio inizia a credere che i sequestratori abbiano un universo di principi alla base del loro agire quanto meno convincente. Il trauma è una frattura, che in questo caso significa essere violentemente e improvvisamente spostati dalle coordinate in cui si stava fino ad un attimo prima (coordinate fatte di esperienze, pensieri, sentimenti che costellano un universo di senso). Per resistere ad un trauma (di qualsiasi natura sia) la psiche mette in atto delle specifiche strategie, che riassunte in una parola abusata corrispondono alla resilienza, ovvero a quella capacità di ristrutturarsi emotivamente intorno ad un colpo per non soccombere. Una parte di queste strategie consiste nel cercare un codice attraverso cui relazionarsi con l’esperienza che si sta vivendo, sviluppare una possibilità di assimilazione alle nuove coordinate di vita. Questo movimento necessita di continui aggiustamenti tra la propria immagine di sé così come la si conosce e l’immagine di sé alternativa che la nuova situazione propone. Si tenta di entrare nell’universo di significazione che quella esperienza porta, e di quella esperienza si notano e sottolineano soprattutto, legandole qui alla propria memoria, quelle che possono essere valutate come positive: il gesto di ricevere una cosa buona da mangiare o una coperta se si ha freddo lega l’immagine di umanità e generosità dell’altro, e lo fa con una potenza esagerata, visto che da quell’altro in quel momento dipende la vita e la morte. E qui siamo ad un’altra caratteristica della Sindrome di Stoccolma: la dipendenza. In un contesto come quello di un sequestro, la relazione non si sceglie. Le persone che tengono in ostaggio sono quelle da cui materialmente dipende la sopravvivenza del sequestrato. Questo sbilanciamento della dinamica di potere produce una proiezione psicologica ed emotiva enorme sul sequestratore: se questa persona potrebbe uccidermi e non lo fa, vuol dire che mi sta facendo sopravvivere. In questa frase c’è un salto di senso evidente, ma la proiezione avviene in modo del tutto inconscio e non è facilmente razionalizzabile. Non stupisce leggere che uno degli ostaggi di Stoccolma, parlando di Olsson, abbia detto che si poteva  "pensare a lui come a un Dio di emergenza".

Come per tutte le situazioni traumatiche gravi a cui si è sottoposti, l’esito dei processi delle strategie messe in atto per sopravvivere al meglio possibile ad un evento straordinario come un sequestro si chiariscono nel tempo, in un progressivo percorso di comprensione e integrazione. 

La cosa più sensata è, nel frattempo, sospendere il giudizio. Del resto non c’è bisogno. 

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