“Alle volte vorrei essere come Circe”
Inizia così il colloquio con Annie. Mi racconta di aver da poco terminato la lettura del libro di Madeline Miller dal titolo Circe. L’autrice ci racconta la storia della famosa maga raccontata da Omero, anche prima e dopo il noto incontro con Ulisse. Circe è figlia di Elios, dio del sole, e della ninfa Perseide, ma è tanto diversa dai genitori e dai fratelli divini: ha un carattere difficile, è indipendente; è perfino sensibile a ciò che avviene di doloroso nel mondo, e preferisce la compagnia dei mortali a quella degli dèi. Quando, a causa di queste sue stranezze, finisce esiliata sull'isola di Eea, non si abbatte, studia le virtù delle piante, conosce le bestie selvatiche, affina le arti magiche. Tra i suoi poteri, quello invidiato da Annie è il potere metamorfico: Circe poteva trasformare le persone in animali il cui animo corrispondesse a ciò che le persone avessero dentro veramente. Con questo incipit letterario, Annie voleva introdurmi al racconto di un episodio della sua vita. Alcuni giorni prima si era incontrata con un uomo che le piace molto. Dopo una lunga serata di risate e giochi seduttivi, trascorrono la notte insieme. Non è la prima volta che accade. Solitamente lui rientra a casa propria prima dell’inizio di una nuova giornata, ma quella notte no; rimangono insieme fino al mattino, colazione inclusa. Un incontro che non si fa confinare alla sospensione del come se notturno ma entra - o intrude - nel giorno seguente. Ciò che ha colpito Annie, mi dice, è la totale incapacità di mostrargli la propria felicità e complicità circa l’iniziativa. Al contrario, non appena realizza quanto stesse avvenendo, assume un atteggiamento spigoloso, infastidito, come a voler far sentire quest’uomo fuori luogo. Nei giorni successivi, per fugare con se stessa ogni dubbio circa il desiderio di implicarsi, esce con uomini diversi ed occupa quello spazio interno con altre presenze, come a voler sottolineare la propria libertà da quella relazione e da tutte le relazioni. E qui entra in gioco Circe. Annie vorrebbe avere il potere di mostrarsi autenticamente, mostrare com’è veramente.
L’autenticità è una parola che circola spesso nei colloqui psicoterapeutici, e non solo; rimanda all’idea che esista un nucleo vero interno al nostro essere e che la qualità della nostra esistenza passi dalla capacità di vivere in conformità con tale nucleo. Questo dentro autentico è sede di emozioni, valori, idee, credenze, preferenze ed è la sede, secondo questa proposta, della nostra identità.
Seguendo questo ragionamento l’autenticità di Annie corrisponderebbe al suo interesse per quell’uomo e al desiderio di trascorrere del tempo con lui. Il suo sentimento di rifiuto viene, così, rapidamente derubricato a inutile mascheramento della verità, incidente di percorso, il non-altrimenti-specificato dell’idea di individuo autentico da dentro la quale Annie sta parlando. Ci sono diversi ordini di complessità in queste affermazioni. Il primo è che l’individuo esista come fatto di natura; Il secondo è che la verità risieda dentro e non nella relazione tra dentro e fuori. Ma andiamo per gradi.
Se non accettiamo la naturalizzazione del costrutto di individuo, cioè l’assunzione che esista e sia sempre esistito come pezzo della realtà, possiamo ripercorrere la storia e trovare tracce della sua invenzione. Si inizia a parlare di individuo e di esperienza interiore nel crocevia della differenziazione tra vita pubblica e privata. Philippe Ariès nel suo “La vita privata” ci racconta come nel Medioevo pubblico e privato fossero sostanzialmente confusi. In un lento percorso di affermazione, l’individuo diventa un organizzatore centrale della cultura del XIX secolo. L’idea di crescita personale, sviluppo individuale, talento e autenticità affondano le radici in questa cultura individualista che ha fatto della soggettività un territorio mitico e idealizzato.
Quanto all’associazione della verità con un contenuto interno, sento di voler chiedere aiuto nuovamente alla storia, questa volta delle parole: verità, dal latino veritas, ciò che è conforme alla realtà, si contrappone al falso, dal latino falsus da fallĕre, ingannare e simulare. La dialettica tra vero e falso rimanda, sembrerebbe, alla relazione con la realtà intesa come “ciò che non si può cambiare”, trasformare in funzione delle proprie fantasie.
Qualcosa di molto differente dal nucleo interno e autentico di cui parla Annie. L’autenticità sembra fondarsi su una sottrazione dalla realtà, un valore assoluto, absolutus cioè sciolto dalla relazione con la realtà. La definizione di sé come autentico (o inautentico) contiene implicitamente la pretesa di poter fare come se la realtà non esistesse.
Annie, nel raccontare le vicende successive all’incontro con quell’uomo, sembrava molto triste e credo di intuire il perché. Fare i conti con la realtà può essere vissuto come un lutto. Per esempio, la difficoltà di traghettare questa relazione dall’attrazione reciproca alla progettualità condivisa, convenire il senso dello stare insieme o del non stare insieme, fare i conti con attese diverse circa il futuro del rapporto, queste ed altre esperienze possono sembrare una perdita. Ma di cosa? Credo si tratti del potere che conferisce l’illudersi, fare finta di riuscire a rendere la realtà “comoda” anche se irriconoscibile.
Ora mi torna in mente un significato della parola comoda: quella particolare sedia usata per espletare i propri bisogni fisiologici, una sorta di progenitrice della toilette, luogo senza l’altro per eccellenza. In tal senso, forse, dovremmo rivalutare la scomodità di certe posizioni e domandarci qual è il costo dell’evitarle.