Ben è un giovane uomo affetto da Disturbo Ossessivo Compulsivo. All’età di sette anni i primi sintomi del DOC cominciarono a manifestarsi. Mentre suonava il piano, la sua mente iniziò a sviluppare la convinzione per la quale, se non avesse sollevato le dita dai tasti nel modo corretto, l’intera sessione sarebbe stata compromessa.
Con il tempo la situazione degenera. Un segnale sempre attivo, come una radio in funzione continua, gli rimbomba nel cervello. Ben non è più in grado di controllare quel segnale ed inizia ad essere preda di rituali compulsivi: deve andare a controllare che la stufa sia stata spenta. Una volta, due volte. Venti volte. L’atto del controllo permette di tenere a bada un senso di panico interiore che lo pervade in ogni momento della sua esistenza.
I veri problemi, tuttavia, iniziano con la nascita di suo figlio. Ogni sera lo fa addormentare, ma i suoi sensi non bastano per vivere con serenità quel momento di quiete. Ben accende la torcia del cellulare e controlla ripetutamente che suo figlio non stia soffocando nel sonno, preda del suo delirio ossessivo.
Un giorno scopre che l’Università di Yale sta facendo uno studio sperimentale per curare il DOC con la psilocibina, la sostanza psicoattiva presente nei funghi allucinogeni. Ben è sottoposto ad una seduta alla presenza di due terapeuti.
Il suo viaggio psichedelico lo porta a rivivere la morte di un suo conoscente, caduto da un dirupo quando era adolescente. Ben vede sé stesso precipitare nel vuoto, rimpicciolendo fino a divenire un seme e poi morire. Dal seme però nasce un albero, appaiono le figure più importanti della sua vita, sua moglie, suo figlio ed il suo cane. Con un ramoscello, che è parte di sé, gioca con il suo bambino.
Due settimane dopo l’esperienza psichedelica, i sintomi tornano, ma a Ben per la prima volta sembrano irrilevanti e privi di senso. Non sente più il bisogno di attuare comportamenti compulsivi, riappropriandosi della propria vita e del personale arbitrio su di essa. Dopo qualche mese i sintomi sono scomparsi. Ben comincia a valutare la sua vita in termini di pre-psilocibina e post-psilocibina.
Uno dei limiti della serie How to Change Your Mind è il tipo di narrazione sulla guarigione che propone. La cura psichedelica sembra agire una tantum, una volta per tutte, titillando la fantasia dello spettatore che in più occasioni osserva con stupore il miracolo della rinascita grazie ad una sola dose di sostanza. Questo tipo di aspettativa magica potrebbe illudere l’opinione pubblica che si approccia per la prima volta al fenomeno, che ha invece bisogno di essere verificato in modo approfondito.
Dalla serie ad esempio non è sempre chiaro quante siano le sessioni necessarie prima che la sostanza psichedelica abbia un effetto, né qual è la percentuale di soggetti che hanno avuto miglioramenti visibili dopo aver partecipato alle sperimentazioni cliniche (che restano comunque sperimentazioni ed ancora non hanno portato a risultati conclamati e soprattutto pienamente condivisi all’interno della comunità scientifica).
In tutta la serie c’è un solo alert sui potenziali pericoli della terapia psichedelica. A questo tipo di terapia si possono sottoporre soltanto pazienti che hanno superato una serie di test ed assessment sul proprio funzionamento mentale e sulla propria struttura di personalità. Persone che, anche in forma latente, manifestano sintomi di destrutturazione, potrebbero vivere delle vere e proprie crisi psicotiche, generate dall’assunzione di sostanze psichedeliche.
Un altro limite del prodotto di Pollan è che propone un rapporto quasi lineare tra il tipo di sostanza assunta e la cura di specifici disturbi psichiatrici o disagi esistenziali. Se l’LSD sembra agire in forma più ampia, andando a “coprire” diversi disturbi, la psilocibina sembra essere particolarmente adatta nell’intervento con malati terminali, per agire sulla loro angoscia di morte, o con pazienti ossessivo-compulsivi; l’mdma, invece, sembra essere specifica per il disturbo post-traumatico da stress e l’elaborazione di esperienze traumatiche più in generale. Caso a parte lo spazio dedicato alla mescalina: l’episodio - l’ultimo della serie - racconta più il rapporto fra la pianta del peyote e le popolazioni indigene del Messico e del sud degli Stati Uniti, che l’associazione con disturbi specifici.
Nella scorsa newsletter abbiamo lasciato in sospeso un aspetto storico. L’utilizzo di sostanze psicotrope per scopi terapeutici cominciò ad essere preso in considerazione dalla medicina moderna tra gli anni ‘40 e ‘50. Il più famoso ricercatore fu Albert Hofmann, chimico svizzero, che per primo sintetizzò e testò su sé stesso l’LSD.
Gli effetti di ampliamento percettivo e di alterazione della coscienza che riscontrò avrebbero, a suo giudizio, potuto aiutare diversi terapeuti nella cura di pazienti psichiatrici. Uno dei primi psichiatri ad utilizzare l’LSD con scopi terapeutici fu Humphry Osmond, che cominciò a trattare pazienti schizofrenici con la sostanza, identificando effetti psicotomimetici, cioè “imitanti la psicosi”.
Negli anni ‘60 e ‘70, tuttavia, l’LSD uscì dai laboratori e si diffuse fra la popolazione, in un periodo in cui si riteneva che attraverso le droghe l’intera umanità avrebbe potuto liberarsi dalle costrizioni sociali e individuali.
Gli effetti dell’uso ricreativo delle sostanze psichedeliche furono preoccupanti e da quel momento si mobilitarono i governi per limitare il loro consumo.
Soltanto alla fine degli anni ‘90, alcuni ricercatori riportarono all’attenzione mediatica l’uso terapeutico e controllato delle sostanze psichedeliche. Nacquero movimenti per la depenalizzazione della coltivazione di piante contenenti sostanze psichedeliche. Il più importante di essi fu Decriminalize Nature, nato dalla convinzione che criminalizzare le piante non fosse la strada maestra per combattere la tossicodipendenza. Grazie alla loro azione politica, il movimento riuscì a far approvare per la prima volta nel 2019 ad Oakland l’uso di piante contenenti sostanze psicotrope a scopi terapeutici.
Oggi il dibattito è molto acceso. Se da una parte continuano a crescere gli studi sperimentali a sostegno dell’uso delle terapie psichedeliche, dall’altra restano ancora molti punti oscuri da chiarire nei prossimi anni.
Di certo il pensiero magico che porta a ritenere le sostanze psichedeliche una panacea universale potrebbe essere dannoso. Serviranno studi sottoposti a rigorose procedure scientifiche e sarà necessario considerare anche tutti quegli studi che mostrano i potenziali pericoli delle terapie psichedeliche.
Per leggere la prima parte della newsletter sul tema Psichedelia: https://festivalpsicologia.it/psichedelia-prima