“Sto cercando di non avvicinarmi troppo alle persone, ma mi fido del fatto che loro staranno attente con me”.
Con queste parole comincia l’articolo apparso sul New York Times lo scorso 28 aprile, che prova a raccontare agli americani perché il modello svedese stia funzionando. A parlare è Birgit Lilja, una signora di 82 anni che descrive la vita in Svezia durante la quarantena.
Pochi giorni dopo, Mike Ryan, capo del Programma di emergenze sanitarie dell’OMS, diffonde pubblicamente il suo endorsement al modello svedese: “Se vogliamo raggiungere una nuova normalità, la Svezia rappresenta un modello da seguire per tutti, si sono basati su un rapporto di fiducia con la cittadinanza”.
Si è già parlato ampiamente della scelta svedese di effettuare un lockdown soft, senza la chiusura degli esercizi commerciali, né l’utilizzo di sanzioni per punire i trasgressori che non rispettano le indicazioni di distanziamento sociale adottate in tutto il mondo. L’aspetto che sembra più rilevante è tuttavia la scelta strategica e comunicativa adottata in Svezia, incentrata sulla fiducia nella responsabilità individuale dei cittadini.
Fiducia e responsabilità individuale sembrano essere i due cardini del dibattito pubblico nel paese scandinavo. Due aspetti che invece in Italia aprono a polemiche infinite e – spesso – infondate.
Una precisazione è d’obbligo. Quando parliamo di responsabilità individuale siamo nell’ambito dei comportamenti, dei “fatti”: indossare o no la mascherina, rispettare le distanze, pulirsi le mani.
Se si parla di fiducia, invece, entriamo nel campo del vissuto emozionale. Gli individui smettono di essere monadi isolate e l’attenzione è rivolta alla relazione: con gli altri concittadini, con le istituzioni politiche e con quelle sanitarie. Il piano si sposta dal comportamento esterno al significato simbolico.
Se restiamo sul versante della responsabilità individuale, scopriamo che gli italiani non si comportano in modo così trasgressivo: già a marzo Il Post aveva evidenziato come la stragrande maggioranza degli italiani rispettasse le restrizioni per il coronavirus e come soltanto il 5% delle persone fermate per strada dalle forze dell’ordine venisse effettivamente denunciato per violazione delle norme.
Anche i primi dati relativi alla Fase 2 sembrano confermare questa tendenza.
Un secondo fattore va poi tenuto in considerazione. La retorica individualista della responsabilità personale comincia ad essere messa in discussione all’interno della nostra cultura, seppur timidamente.
In un recente ed interessante articolo, scopriamo che in questi mesi di lockdown, le emissioni di CO2 nell’atmosfera si sono ridotte del 5-8%, nonostante la gran parte dei trasporti privati ed il trasporto aereo siano fermi da mesi, il cielo delle metropoli sia più nitido e le acque di Venezia più pulite. Il discorso ambientalista, volto molto spesso alla responsabilizzazione (se non proprio colpevolizzazione) individuale, deve fare i conti con le cause strutturali dell’inquinamento atmosferico. La gran parte delle emissioni sono dovute ad attività difficili da attribuire ai singoli: funzionamento delle centrali per la produzione elettrica ed attività industriali in generale.
Ebbene, le componenti strutturali sembrano agire anche nella diffusione e resistenza del coronavirus. Uno studio condotto dall’Università di Catania⁵ sembra mostrare come alcuni fattori trasversali (inquinamento atmosferico da PM10, temperatura invernale, mobilità, densità e anzianità della popolazione, densità di strutture ospedaliere e densità abitativa), rendano il Nord Italia notevolmente più esposto al contagio del Centro-Sud.
Se dunque gli italiani rispettano le norme nella gran parte dei casi e se la diffusione del virus sembra correlata a fattori strutturali sui quali l’influenza del comportamento dei singoli è limitata, perché non appena apriamo i social o i quotidiani online emerge una rappresentazione degli italiani come trasgressori menefreghisti che non hanno rispetto per gli altri?
In Svezia la fiducia fra governo, istituzioni sanitarie e cittadinanza è reciproca. Il governo ha puntato sull’autoregolamentazione da parte dei cittadini, perché la loro cultura condivisa è fondata sulla fiducia nelle istituzioni e sulla scarsa ingerenza della politica nelle scelte sanitarie prese dagli esperti, che godono di rispetto e autorevolezza presso la società civile.
Nel nostro paese l’impressione è che non sia tanto la responsabilità individuale ad essere carente, quanto la percezione di fiducia fra istituzioni e cittadinanza e fra i cittadini stessi. Da una parte c’è stato un proliferare di divieti per “tenere a bada” un cittadino ipotizzato sin da principio come refrattario alle regole, dall’altra una critica continua alle scelte del governo, della Protezione Civile e delle istituzioni sanitarie, percepiti come obbliganti. La cultura “poliziesca”, d’altro canto, sembra essere stata talmente ben digerita dalla popolazione, che non mancano le ingiunzioni del cittadino verso il cittadino, come l’esempio dei runner ci ha ampiamente dimostrato.
Siamo di fronte ad una diffidenza reciproca che ha basi emozionali e culturali, più che fattuali.
L’impressione è che siamo ormai da tempo incistati in una cultura del controllo, nella quale la dinamica della diffidenza organizza i rapporti sociali. Già prima del coronavirus l’immagine dell’italiano che non adempie al suo dovere, che trasgredisce le regole del gioco era frequente.
Possiamo immaginare come possa acuirsi questa percezione di fronte ad un pericolo invisibile come il covid-19.
Nella dinamica della diffidenza l’altro è simbolizzato da principio come nemico, a meno che non dimostri con il suo comportamento, con la sua adesione alle regole, di essere amico.
La micidiale sintesi di questo periodo è che l’altro è nemico in quanto potenziale veicolo di diffusione del virus. Qualsiasi azione che di discosti dalle regole - regole peraltro non sempre facili da interpretare, basti pensare a tutta la riflessione su cosa voglia dire “congiunto” - viene allora intesa come aggressione deliberata. Se l’altro è un nemico da cui non aspettarsi nulla se non la massima irresponsabilità, l’unica risposta è controllarlo e punirlo.
Questa sfiducia nell’altro asseconda una caccia al colpevole da tenere sotto controllo, che investe tutti livelli della società, dalla politica (Beppe Sala che intima di chiudere i Navigli) ai cittadini comuni (i continui repost sui social di singole notizie di trasgressione, spesso non verificate).
Proprio la diffidenza sembra segnare il passaggio dalla lotta ad un nemico comune (il virus) alla lotta contro un nemico anomico, divisivo, che è l’altro che ci sta attorno, di cui non sappiamo nulla, ma di cui allo stesso tempo non ci si fida a priori.
Ora che l’emergenza è attenuata e siamo entrati nella fase di convivenza con il virus, interrogarsi su come tale diffidenza possa influire sulla ripresa delle attività e sulla contemporanea gestione del virus diventa sempre più rilevante.