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Gli esperti lo considerano una forma di disturbo psichico molto sottostimato. Chi si vergogna profondamente del proprio aspetto fisico, di uno specifico difetto attribuito al corpo, tanto da dedicargli ore e ore di pensieri e infinite strategie di correzione, si rivolge con più facilità ad un chirurgo estetico che ad uno psicoterapeuta. Si chiede, infatti, alla chirurgia di annullare l’anomalia, di aggiustare il difetto, bypassando la possibilità di riflettere sul senso della sofferenza che il difetto lega a sé, privandola di qualsiasi dimensione simbolica e soggettiva. Si ha in mente un modello, un’immagine ideale di come sarebbe il proprio aspetto una volta liberato dal difetto. E se alla fine ci si rivolge alla chirurgia come soluzione, spesso si rimane delusi. Perché non si raggiunge il modello desiderato, perché quel modello è una proiezione di una tensione che racconta un’altra storia. E si può continuare a fare un intervento dopo l’altro, ma l’immagine ideale non la si raggiunge mai, perché si sta collocando la soluzione della sofferenza in una dimora sbagliata. Si sta mettendo nel corpo, oggettivandolo, sezionandolo, parcellizandolo, un bisogno che riguarda la sfera degli affetti.
La sofferenza che può condurre ad attribuire a tratti corporei disprezzati una profonda sensazione di disagio esistenziale ha radici antiche, generalmente connesse con le relazioni primarie, con gli scambi affettivi della prima infanzia. È quindi espressione di un intenso bisogno di accettazione che ha matrice nella storia soggettiva. Certo è che la dimensione sociale può contribuire ad esacerbare il disagio. I modelli che vengono assunti come soluzione sono lì fuori, e hanno le fattezze di qualche modella o di qualche sportivo replicate all’infinito sui canali social e sui media. La digitalizzazione di una parte importante della socialità funge da cassa di risonanza all’operazione di oggettivizzazione del corpo. Lo schermo è una dimensione proiettiva per sua stessa natura. Guardare l’immagine esteticamente accattivante di un corpo non ci dà informazioni sull’energia vitale di quella persona, sulle sue caratteristiche di personalità. Non ci dice se è affascinante o simpatica. Ma la bellezza che si rappresenta si presta alla proiezione del nostro desiderio e della nostra tensione. Nella dimensione virtuale del nostro esserci possiamo anche sperimentare l’ebrezza demiurgica di trasformarci. I programmi per modificare le fotografie sono, in questo senso, uno strumento molto potente. “Snapchat dysmorphia” è il nome che il medico cosmetico britannico Tijion Esho ha attribuito all’ossesione di modificare il proprio aspetto nei selfie attraverso i sistemi di postproduzione delle immagini digitali, nel tentativo di raggiungere quell’immagine di sé che corrisponda al proprio ideale. Il problema è poi che quella immagine non può essere trasferita nel mondo. Che se i filtri consentono di avere occhi più ampi o caviglie più sottili, poi quel comando non funziona nel mondo dell’incontro fisico con gli altri.
Legare l’idea che raggiungere un’immagine ideale sia la chiave per conquistare affetto, attenzione da parte degli altri, successo, felicità, non tiene conto di un drammatico e radicale equivoco: l’essere è sempre incarnato, e il corpo è il luogo animato che ci fa fare l’esperienza di vivere. Essere un corpo è dimensione essenziale dell’essere se stessi. Non si diventa altro perché si è annullato un difetto. Incarnarsi e vivere il proprio corpo animato è esperienza che include vivere e accettare l’imperfezione. Incontrare se stessi e l’altro a partire da lì.
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