Hikikomori: la protesta in una stanza

Hikikomori: la protesta in una stanza

In questa intervista esploriamo il fenomeno dell’Hikikomori. E lo facciamo con la dottoressa Chiara Illiano, coordinatrice area psicologica dell’Associazione Hikikomori Italia Genitori Regione Lazio.

Ci aiuta, intanto, ad inquadrare il contesto di riferimento del suo lavoro?

Hikikomori Italia nasce nel 2013 da un blog del dott. Marco Crepaldi. Poi, un anno fa, un gruppo di genitori che partecipava assiduamente al blog ha deciso insieme al dott. Crepaldi di creare un’Associazione per genitori, Hikikomori Italia Genitori Onlus. Da qui sono nate le varie sedi regionali, che anche se per ora non hanno una sede fisica hanno un coordinatore regionale dei genitori e un coordinatore per gli psicologi (due nel caso del Lazio), oltre che a referenti di zona, per le città grandi come Roma. Una volta al mese ci si ritrova in sedi che prestano i loro locali per l’occasione e lì si fanno incontri che si svolgono prevedendo una prima fase di debriefing di tipo organizzativo, seguita poi da un gruppo di auto-mutuo aiuto per i genitori, condotto dallo psicologo referente. Per i ragazzi c’è la possibilità di accedere in fascia serale, e anonimamente, ad una chat di supporto gestita a turno dagli psicologi dell’Associazione; oltre ad una pagina Facebook a loro dedicata e ad una chat telegram.

Dottoressa Illiano, ci aiuti ad inquadrare il fenomeno dell’Hikikomori. Ad esempio, le sue origini, la sua diffusione…

Hikikomori è un termine giapponese, dal momento che il fenomeno è stato studiato inizialmente in quella cultura. Il termine significa letteralmente “stare in disparte” ed è un termine gergale, proprio perché il fenomeno è stato primariamente osservato nell’ambito sociale. Lo psichiatra Tamaki Saito è stato il primo a utilizzare il termine in un testo scientifico, e da lì si è diffusa una maggiore conoscenza della sua manifestazione. In relazione alla sua diffusione, il fenomeno, per sua stessa natura, potrebbe essere sottostimato. Le Associazioni di settore, a differenza del governo che tende a contenere i numeri, ritengono che il fenomeno riguardi almeno l’ 1,2 % della popolazione. È fondamentale sottolineare che l’Hikikomori riguarda persone che non hanno una psicopatologia. La scelta di ritirarsi dalla società avviene con un atto di volontà consapevole – a differenza, ad esempio, ad alcune manifestazioni di ritiro che sono un sintomo secondario di una severa ansia sociale o del panico. Certamente un disagio alla base c’è: un disagio di natura comunicativo e relazionale. Ma la decisione di interrompere qualsiasi relazione con il mondo è una scelta deliberata. In Giappone sono stati stilati alcuni criteri per identificare il fenomeno. Ad esempio: isolamento da almeno 6 mesi, nessun tipo di contatto con l’esterno, interruzione della scuola o del lavoro e nessuna presenza di psicopatologia come causa del ritiro. In Giappone il fenomeno assume solitamente forme molto severe, i ragazzi che si ritirano si chiudono letteralmente nella loro stanza, non hanno alcun contatto con i genitori e, anzi, quando i genitori provano a interrompere l’isolamento possono diventare molto aggressivi.  Nel mondo occidentale in genere il fenomeno ha caratteristiche meno estreme, ad esempio negli USA non prevede l’abbandono del college. Il motivo di questa differenza è da ricercare soprattutto in ragioni culturali: l’Hikikomori è sostanzialmente una forma reattiva alle pressioni sociali, che sono considerate come insopportabili, e sicuramente in Asia vi sono livelli di pressione sociale altissimi.

E in Italia?

In Italia abbiamo una casistica abbastanza estesa. Il primo segnale di allarme è quando un ragazzo inizia a saltare la scuola. Può succedere che, nonostante il ritiro, qualcuno continui ad avere rapporti con il proprio migliore amico, o che qualcuno continui ad avere un dialogo con i familiari. In generale, c’è un forte disagio nell’istaurare relazioni interpersonali. C’è una visione molto negativa del mondo e della società. La percezione che, per quanti sforzi si possano fare, il divario tra ciò che la società chiede e ciò che si riesce a dare con il proprio impegno rimanga incolmabile. Il futuro è sentito come profondamente incerto. La condotta morale vissuta come intrinsecamente ambigua: ci dicono di comportarci secondo regole che poi gli stessi soggetti che dovrebbero farle rispettare le contravvengono. Questa percezione produce un profondo scoraggiamento sul piano emotivo ed è un movente fondamentale per il ritiro. Sul piano intimo, c’è una generalizzata delusione nei confronti delle relazioni: il mondo dei pari appare come scarsamente empatico, competitivo e difettuale a livello dell’autenticità affettiva. In estrema sintesi, quello che i ragazzi che si ritirano dicono è: io non voglio continuare a vivere in questa società. Il fatto che la scelta sia razionale è una specifica difficoltà per il trattamento: i ragazzi possono infatti assumere un atteggiamento sprezzante e apertamente rifiutante nei confronti dei tentativi di farli uscire da quella condizione.

Mi sembra quindi che questo fenomeno abbia un carattere trasgressivo nei confronti della società. Che poi è uno dei posizionamenti tipici dell’età adolescenziale, quella di segnalare la disfunzionalità della società. Solo che qui non c’è un atto rivoluzionario che vuole incidere nel mondo per cambiarlo, ma un movimento contrario, in cui il mondo viene lasciato perdere.

Sì, infatti. Alcuni autori che hanno scritto di questo fenomeno parlano proprio dell’hikikomori come una reazione attiva ad un conflitto tra ciò che la società chiede e la profonda incertezza che sottintende questa partita. Questo è il motivo per cui non viene considerato una psicopatologia. Però è ovvio che poi la psicopatologia può arrivare. Restare a lungo chiusi dentro casa, senza alcun contatto umano, con stimolazioni sempre più povere, può far insorgere stati di depressione, di ansia, disturbi ossessivi-compulsivi, dipendenza da internet. Questo crea un circolo vizioso, perché più si allunga il ritiro più diventa spaventoso il reinserimento.

Come accennavamo prima, la richiesta di aiuto arriva soprattutto dalla famiglia ed è soprattutto lavorando sulla famiglia che si può produrre un cambiamento. Le famiglie normalmente sono spaventate e ansiose. Magari hanno tentato di forzare il figlio, hanno messo in atto punizioni o restrizioni che possono esacerbare il problema. Sicuramente è necessario modificare la comunicazione all’interno della famiglia. I gruppi di genitori servono anche a questo: dare ai genitori l’opportunità di non sentirsi impotenti, magari organizzando attività che riguardano “di sponda” il problema, senza focalizzarsi esclusivamente sui tentativi diretti di modificare le condotte dei figli. I genitori imparano a maneggiare il problema con più competenza e diminuiscono la pressione nei confronti dei figli, in modo da lasciare loro uno spazio di non oppressione in cui possono tentare qualche piccolo cambiamento. Parliamo di cose semplici: anche aiutare i genitori a non colludere immediatamente con le richieste dei figli: gli hanno chiesto un panino con il prosciutto? Poter anche dire: “scusa, in questo momento ho altro da fare”, senza recriminazioni, può aiutare il figlio ad uscire dalla partita (che può diventare sempre più perversa) del potere e della dipendenza. Insomma, poter fornire senza sensi di colpa quella dose di frustrazione che fa spazio alla possibilità del cambiamento. E anche per le regole: è inutile dare mille regole per essere poi continuamente costretti a infrangerle. Meglio poche regole, possibilmente negoziate, ma senza ambiguità. Sono piccoli passi, ma sono fondamentali perché il sistema famiglia si modifichi e crei un terreno favorevole per un cambiamento anche delle condotte di ritiro dei ragazzi.

Lei prima ha accennato al tema della dipendenza, che mi sembra fondamentale in questo scenario relazionale.

Sì, infatti. In Giappone è stato coniato un termine specifico, Amae, che indica la relazione di dipendenza dal ragazzo dalla madre. Ma, anche qui, non possiamo prescindere dalle coordinate culturali. La dipendenza dalla madre, così come dalla società, in Giappone è una specie di ideale a cui tendere, che si declina con comportamenti di estrema deferenza verso il prossimo, di dedizione, di estrema sensibilità al giudizio degli altri, del mettersi al servizio dell’altro. È un modo di essere altamente premiato socialmente. Tanto che, quando i figli si ritirano dalla società, è talmente forte il senso di vergogna, che i genitori quasi accettano di buon grado che siano chiuso in casa in una prima fase. Da noi questa dipendenza non è così sintonica. Un’estrema dipendenza, per esempio del figlio dalla madre, è vista come qualcosa di problematico. Sicuramente, in famiglie così iperprotettive come sono quelle in cui spesso il fenomeno del ritiro avviene, forme di dipendenza disfunzionale ci sono. Oltre alla dipendenza affettiva, c’è anche una dipendenza economica, una dipendenza domestica (il cibo, i vestiti), che è una dimensione per niente banale, perché è una dimensione su cui si può lavorare molto per creare più opportunità di autonomia.

Qui infatti mi sembra ci sia un grande paradosso. Questi ragazzi scelgono di ritirarsi per interrompere la relazione con il mondo, per essere in qualche modo autonomi rispetto agli altri, e poi di fatto dipendono in tutto e per tutto da quel microcosmo che è la famiglia.

Sì, senz’altro. Uno dei tratti di personalità ricorrenti in questi ragazzi è l’ infantilismo, che tuttavia è quello che lamentano i ragazzi ritirati quando litigano con i genitori: dicono “mi tratti come un bambino”, ma di fatto la loro posizione è una posizione infantile di per sé. Per questo è importante che i genitori mettano in atto piccoli boicottaggi alle richieste di immediata gratificazione dei ragazzi. Questo è un punto importante, perché questi ragazzi hanno una bassissima sopportazione delle frustrazioni. E questo nodo è fondamentale anche per capire una condotta di dipendenza che si istaura sovente nell’hikikomori: la dipendenza da internet, soprattutto dai videogiochi. Questa condotta risponde a varie criticità: intanto in internet si può creare e far crescere un’identità digitale immaginaria che sostiene i bisogni narcisistici di questi ragazzi: dalla propria stanza ci si può inventare una socialità diversa, ad esempio. E poi, più concretamente, i videogiochi – con il loro sistema di stimolazione ormonale costante e con l’estensione dei loro intrinseci pattern di ricompensa – favoriscono biologicamente l’istaurarsi di stati di dipendenza. Ma non bisogna demonizzare la tecnologia: essendo un dispositivo a cui i ragazzi ritirati accedono può, nell’altro verso, essere anche uno strumento per accedere a loro. Magari mettendo a disposizioni, attraverso specifiche piattaforme virtuali, video con contenuti studiati ad hoc.

A parte il lavoro con le famiglie, cosa può stimolare un ragazzo in ritiro a riaffacciarsi nel mondo?

Direi la nostalgia. Alcuni aspetti della vita di prima continuano a essere investiti di significati positivi. Le uscite con gli amici, lo sport, la scuola stessa. Il desiderio di vivere situazioni che in passato hanno reso felici è sicuramente, dal punto di vista affettivo, un movente importante. Poi c’è tanto lavoro da fare, perché recuperare sia abitudine che fiducia nelle proprie azioni dirette nel mondo è un percorso tutto da ricostruire. Però la scintilla può venire da lì, dalla nostalgia di alcuni aspetti del mondo che non hanno smesso di essere desiderabili.

Abbiamo visto che non si può comprendere l’hikikomori senza considerarne la dimensione sociale. Cosa si può fare su questo piano?

E’ indispensabile lavorare in rete, non solo con le famiglie, ma anche con la scuola e con tutte le istituzioni sensibili, perché su un piano più generale è soltanto favorendo un cambiamento societario che un fenomeno come questo può regredire. Sul piano concreto, quindi, sono indispensabili azioni di informazione, sensibilizzazione e prevenzione.

Per approfondimenti sul tema: http://www.hikikomoriitalia.it/ 

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