Il dominio della paura

Il dominio della paura

La paura è un’emozione che tutti conosciamo. Fa parte del nostro corredo psicofisiologico di base ed è un segnale fondamentale per la sopravvivenza: ci dice, istintivamente, se stiamo affrontando un pericolo e quali sono le risposte più adatte a fronteggiarlo. Come tutte le risposte istintive, che si determinano attraverso l’attivazione di importanti sistemi neuroendocrini, che ci aiutano – nel caso specifico – ad avere una riserva immediata dell’energia necessaria per rispondere allo stimolo minaccioso, allo stato di eccitazione segue uno stato di rilascio. Lo stimolo è passato e l’individuo può riorientare la sua attenzione a quello che il contesto offre, rispondendo con disponibilità alla fluidità dell’esperienza.Quando all’attivazione non segue una adeguata scarica dell’emozione si creano le basi per un congelamento dell’esperienza reattiva della paura e il sistema di risposta agli stimoli perde plasticità. Si diventa ipersensibili alle minacce e si indebolisce anche la competenza cognitiva di discriminare ciò che è davvero spaventoso e ciò che non lo è.

Si perde plasticità quando gli stimoli spaventosi sono talmente improvvisi che non si era preparata una risposta adeguata, oppure quando gli stimoli sono talmente pervasivi da creare uno stato di condizionamento inconscio. Come la rana che, immersa in un’acqua che viene riscaldata in maniera infinitesimale ma continua, non si accorge di scottarsi e finisce cotta, così rischiamo di non accorgerci delle conseguenze distoniche dell’essere immersi in un contesto che costantemente evoca timore. Come ci dicono le teorie dell’attaccamento, la fiducia, la capacità di incontrare l’ambiente per ottenerne nutrimento e rispecchiamento empatico, è condizione fondamentale allo sviluppo sano dell’individuo.

Se proviamo a spostare il focus dall’individuo alla società, nella considerazione che la società è un altro fondamentale contenitore di senso e di risorse nello sviluppo dell’individuo, ci possiamo domandare in che modo il contesto favorisca o inibisca il senso di fiducia con cui l’individuo si relaziona con l’altro da sé. Il campo di riflessione è sufficientemente ampio da sfiorare gli studi sui comportamenti prosociali. Se è vero che la competizione è un comportamento profondamente radicato nell’essere umano, è ugualmente vero che anche la disponibilità ad aiutare gli altri lo è.

Cos’è che stimola e favorisce un comportamento di apertura agli altri? Alcuni studi del progetto Human Generosity, che indaga le motivazione sottese ai comportamenti di cooperazione verso competitività, hanno concluso che il mondo non è diviso in società generose contro egoistiche. È il mix di strategie di cooperazione e di condivisione dei rischi (costantemente connessa ai bisogni e al mercato) che varia, ed è probabile che le società traggano vantaggio dalla loro combinazione. Una recente review di Hilbe e colleghi (2018) ha preso in considerazione il concetto teorico di “partnership” e quello di rivalità nei dilemmi sociali, mostrando come la competizione tenda a svilupparsi nei gruppi più piccoli di persone con un numero molto limitato di interazioni, mentre interazioni più frequenti e un contesto sociale più stabile sono in grado di incoraggiare comportamenti di cooperazione tra gli individui. Ancora le ricerche dicono che gli individui adulti tendono maggiormente a collaborare quando hanno in precedenza stabilito la presenza di una ricompensa o di un bene comune, mentre tendono a scontrarsi nel momento in cui è necessario mantenere una risorsa o beni già esistenti.

Le ricerche sul campo cercano anche di dare una risposta, che diventa sociale e politica, all’esacerbarsi di dinamiche di settarismo e intolleranza contro le minoranze nelle società occidentali. Rintracciando il filo del discorso sulla fiducia, possiamo pensare che alcuni cambiamenti radicali della società contemporanea abbiano pesato fortemente nell’aumento del sentimento di incertezza.

I cambiamenti del mondo del lavoro, sempre più frammentato, deregolato e precario; la crisi economica e i conflitti militari, con i relativi esodi di popolazioni; il terrorismo; gli scenari connessi ai cambiamenti climatici; le minacce legate allo sviluppo delle tecnologie, soprattutto informatiche; l’amplificazione dell’allarmismo attraverso i mass-media, che rispondono ad un utilizzo spesso propagandistico delle minacce incombenti; l’erosione della legittimità dei sistemi istituzionali investiti del ruolo di protezione formale nei confronti dei pericoli. Tutto questo contribuisce a creare sentimenti di frustrazione, ansia, senso di vulnerabilità e cinismo.

Ulrich Beck, fondatore del concetto della “società del rischio”, parla di una società che, per le logiche del suo stesso sviluppo, ha fabbricato incertezze. Nel senso che, accanto a pericoli incontrollabili (che sono simili a quelli che incombevano sull’umanità nel modioevo, come i disastri naturali), in un calcolo probabilistico di costi/benefici ha prodotto minacce, senza poter garantire il controllo su di esse. I rischi che la società genera esulano dalla reale possibilità di governarne le conseguenze e sono pervasivi e dislocati sia sul piano temporale che spaziale. Questi rischi comprendono gli stati-nazione, le alleanze militari, e tutte le classi sociali e presentano nuove sfide alle istituzioni che sono deputate al loro controllo.

Le regole istituite di attribuzione di responsabiltà, di causalità, di colpevolezza e giustizia, perdono valore. Le istituzioni che dovrebbero essere deputate alla protezione perdonono credibilità. A fronte di questa “irresponsabilità organizzata” l’individuo – che si sente sempre più coinvolto e sempre più informato (anche grazie alla maggiore disponibilità della tecnologia) – vive la condizione paradossale di percepirsi più potente di un tempo e allo stesso tempo più impotente. Laddove è difficile creare un atteggiamento di affidamento fiducioso irrompono reazioni emotive arcaiche, colorate di sfumature paranoiche, unitamente alla tendenza a saltare i sistemi intermedi di responsabilità e gestione degli eventi critici e precipitarsi dritti in scena in prima persona.

È per questo che i sondaggi mostrano che la “percezione” della minaccia (di essere derubati in casa, della pericolosità dello straniero della porta accanto) è ben più forte e presente della minaccia reale, ma non per questo meno incisiva nel provocare reazioni d’allarme concretissime. L’antidoto a questa deriva sembra non poter prescindere dall’esplicitazione della interconnessione profonda della catena di azioni-reazioni che regola gli accadimenti e da una più responsabile etica dell’azione collettiva, che possa favorire la cooperazione e la prosocialità. Sul piano anche individuale, nel rafforzamento di quei luoghi intermedi di riflessione e pensiero che servono per poter attribuire un significato più ampio e integrato a ciò che accade.

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