La scelta dell’autolesionismo

La scelta dell’autolesionismo

“Quando è uscito dall’appartamento ho preso le forbicine per le unghie e mi sono aperta un buco all’interno della coscia sinistra. Sentivo di dover fare qualcosa di melodrammatico per smettere di pensare a quanto male mi sentivo, ma il taglio non mi ha fatta sentire meglio. In realtà sanguinava parecchio e mi sono sentita peggio. Mi sono seduta sul pavimento della mia camera sanguinando in un pezzo di carta da cucina appallottolato e pensando alla mia stessa morte. Ero come una tazza vuota, che Nick aveva svuotato, e adesso ero costretta a guardare quello che si era versato fuori di me: tutte le mie illusorie convinzioni sul mio valore e le mie pretese di essere la persona che non ero. Finché ero piena di queste cose non le riuscivo a vedere. Adesso che non ero piú nulla, solo un bicchiere vuoto, di me vedevo tutto.”

La protagonista del libro Parlarne tra amici, di Sally Rooney, spesso ricorre ad azioni autolesionistiche. Lo fa quando deve affrontare un incontro che la mette in ansia, lo fa quando si sente abbandonata, lo fa quando le situazioni intorno precipitano e si sente smarrita, sotto una pressione schiacciante, angosciata.

L’azione di ferirsi racconta moltissimo della sofferenza psichica ed è una condotta in aumento tra le persone, soprattutto tra gli adolescenti. Quando se ne iniziò a parlare, alcuni decenni fa, veniva spesso associata ad un certo messaggio culturale e identitario: si ferivano volontariamente chi si professava emo o chi desiderava trasmettere una rappresentazione gotica di sé. Questa attribuzione identitaria culturale ha in parte coperto l’aspetto intimo e affettivo delle condotte autolesionistiche, che adesso si stanno guardando con più preoccupazione e attenzione. 

Ferirsi è trasferire sul corpo un dolore emotivo spesso confuso e indicibile. Arrecarsi volontariamente un dolore fisico, generalmente ben visibile (soprattutto ci si taglia) significa imprimere sulla propria superficie esistenziale e sensibile una sofferenza che altrimenti viene percepita come soverchiante, un altrove che trascina altrove. Il segno della ferita ha allora una polisemia di significati: marca il corpo, dando la sensazione - anche se attraverso il dolore - che nel corpo si abita, che si è un corpo e che questo significa da qualche parte anche esistere; mostra che il dolore che si prova è concreto, è lì, disponibile a essere visto e percepito; è memoria che inchioda un senso a volte insopportabile di vaghezza, confusione di pensieri e angoscia emotiva; è anche - in maniera spesso negata e ambivalente - segno che qualcun altro potrebbe riconoscere e intendere. Qui si innesca la partita nei confronti del segreto del segno autolesionistico: un’azione privata, intima e dolorosa, che da qualche parte è anche una specie di messaggio dentro la bottiglia, una richiesta nascosta di aiuto o di visibilità.

Spesso, tuttavia, una consapevole richiesta di aiuto tarda ad arrivare e le persone che si feriscono restano incistate nell’indicibilità della loro sofferenza e dentro sentimenti in conflitto: vergogna e sfiducia insieme ad un desiderio di contatto autentico. Con chi possa guardare anche le ferite e restare. Nella recensione che abbiamo fatto nella rubrica “Profondità di Campo - Dialoghi di cinema e psicologia” in merito al film Secretary, ad esempio, raccontiamo come la protagonista, Lee, riesce a smettere di tagliarsi quando l’uomo di cui si è innamorata vede i suoi tagli e ne coglie il significato profondo, aiutandola nel processo di guarigione (nel film il sintomo si innesca su un dispositivo di base masochistico, ma l’azione del tagliarsi racconta esattamente la spinta a darsi un’alternativa al dolore emotivo).

Nei protocolli di cura più diffusi sull’autolesionismo, si insiste sul far passare il momento di urgenza, in cui la pressione emotiva viene percepita talmente forte che ferirsi sembra l’unica opzione. Far passare l’onda, far passare cinque minuti, mettere un tempo che crei una terra di mezzo tra l’impulso e la realizzazione. E’, psicologicamente, il tempo di sospensione in cui può accadere qualcosa di nuovo, qualcosa che spezzi l’automatismo dell’azione e apra la strada ad altre possibili soluzioni. Per esempio, pensare di parlarne con qualcuno cha possa aiutare. 

PrecedenteIl padrone nella testa
SuccessivoQuesto immenso non sapere. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano