“Dottoressa, io mi sono fatto da solo”
Quando sento questa frase, nella mia mente parte inesorabile la marcetta ritmata dell’incipit di “Mi sono fatto da solo” de La Famiglia Rossi. Il gruppo è nato verso la fine degli anni ’90 e ha dedicato questo pezzo a Silvio Berlusconi. Un pezzo che prende in giro il potere quando il potere è esercitato in modo incompetente, falsificando rapidamente quel “da solo” attraverso l’elenco di amici, amici di amici e via discorrendo.
Ma torniamo a noi. A pronunciare questa frase è Olivier, un uomo nato e vissuto in Francia per molti anni della sua vita e arrivato in Italia per lavoro. Si racconta come una persona che ha sempre faticato nel raggiungimento degli obiettivi scolastici. Al contempo era brillante nella musica, nel teatro, nello sport: tutte attività extra scolastiche e rispetto alle quali non sentiva di dovere nulla. Gli parevano esperienze alle quali si potesse avvicinare attraverso il proprio talento, considerando questo come una dote naturale che non necessita di nulla per manifestarsi, come uno spiritello dentro di sé ma indipendente da sé. La storia dei talenti rapidamente si arresta ogni qualvolta la vita lo ha portato a mettere a verifica tali qualità e a non darle per scontate, ogni qualvolta gli è stato detto che il talento non basta. Frequentare con costanza dei corsi di musica, presentarsi alle prove di un gruppo, fare delle audizioni e rischiare un no. Queste sono state tutte occasioni nelle quali Olivier non si è presentato. Olivier crede fortemente che la sua famiglia – in rapporto alla quale sente affetto ma anche distanza e abissale povertà comunicativa e affettiva – non sia all’altezza dei compiti educativi che a una famiglia sono prescritti. In altri termini, Olivier crede che la sua famiglia – per ragioni di Storia e storie – non ha potuto e saputo offrirgli quell’esperienza emotiva ed affettiva necessaria ad uno sviluppo sano. Per questa ragione, tutto ciò che di indesiderato si presenta nella vita è causato da loro, ciò che di buono si presenta nella vita è merito proprio. Qui parte la marcetta in sottofondo e il “mi sono fatto da solo”.
Mi viene in mente l’onnipresente deficit di accudimento che ironicamente Nanni Moretti cita in Habemus Papam. Mi pongo allora una domanda: quale esperienza di accudimento non è stata almeno parzialmente deficitaria? Esiste un accudimento non deficitario? Un accudimento perfettamente sintonizzato e responsivo? È una domanda retorica e so che – almeno razionalmente – tutti conosciamo la risposta ma non è sul piano razionale che si gioca la partita.
Olivier ha vissuto in una famiglia imperfetta a modo proprio. Quali siano le condizioni di questa imperfezione è tutto da capire. L’uso che fa dell’esperienza è però specifico e narra della posizione che ha scelto di assumere: la vittima, eroe contemporaneo.
Da bambino Olivier voleva giocare a calcio ma, nella città in cui viveva con la famiglia, non c’erano squadre e campetti. I genitori non avevano modo di raggiungere il paese vicino per impegni lavorativi – su un piano concreto – e per chissà quali altre ragioni che non avevano a che vedere con la ragione. La frustrazione legata a questa rinuncia non è mai stata elaborata, come se avesse assunto il valore di rappresentante dell’inadeguatezza delle cure genitoriali e del suo non poter fare affidamento su nessuno. Questa proposizione è divenuta fondamento dell’identità stessa e orientato - più o meno consapevolmente - molte scelte. È in questo scenario che Olivier ha tirato fuori una grinta ed una determinazione mai avute prima. Tenuto lontano dal campo di calcio come atleta, provò ad avvicinarsi per altre vie. Dentro un vissuto di ribellione, iniziò in sordina un corso da arbitro che consentisse di avere dei crediti formativi a scuola. Con gli anni iniziò segretamente a coltivare il desiderio di farne una professione. La clandestinità del desiderio aveva come interlocutore principale se stesso: a chi altri si ha paura di dire che si tiene veramente a qualcosa? Oggi, quasi arbitro di serie A, porta in studio un sentimento difficile da identificare. Dopo tutta la fatica fatta e ad un passo dalla realizzazione del grande sogno, si sente triste. In altre circostanze forse avrebbe sabotato quella riuscita, come nel teatro e nella musica. Oggi invece contatta quello che prova, con tutta la sua sorprendente contraddittorietà.
Nella nostra società, e nel dibattito culturale contemporaneo, il merito è questione di confine. Da una parte se ne parla come rimedio all’ingiustizia del clientelismo e dell’amichettismo (per usare una parola di queste settimane), dall’altra come mito intorno al quale si rinforzano differenze sociali e inique ripartizioni di risorse. Michael Sandel, rock star della filosofia politica statunitense, mette in evidenza come in un mondo competitivo, fatto di vincitori e perdenti, si perde di vista la relazione con il contesto. Chi realizza i propri desideri, e raggiunge il famigerato successo in una certa area della propria vita, lo farà grazie ad una quantità notevole di condizioni che in gran parte non controlla (dove sei nato, quando, che studi hai fatto o ti hanno fatto fare, quali persone hai incontrato etc.) Anche avvenimenti dolorosi e fonte di sofferenza possono concorrere in modi non prevedibili alla riuscita dei progetti nella vita. Dunque, vale anche il contrario. Se non ce la fai, non è colpa tua. Puoi sempre interrogarti sulla posizione che assumi e la responsabilità che hai.
In una logica mors tua vita mea, i propri risultati – meritati perché fondati sul mito del farsi da sé – sostengono l’ipotesi di essere cresciuto senza legami. Ogni volta che raggiunge un obiettivo, Olivier inconsciamente deteriora la fitta rete di rapporti entro cui questo obiettivo si è costruito. Farsi da soli è falso. Aggredire i legami che abbiamo per sentirci meritevoli del buono che c’è, o aggredire i legami che abbiamo per sentirci vittime di ciò che non ci piace, ha dinamicamente lo stesso peso simbolico.
Olivier può essere felice dei propri risultati e libero di godere di questa gioia insieme ai suoi cari, senza bisogno di alimentare l’eroismo vittimistico di chi ce la fa nonostante tutto.