Prima della psichiatria. Caterina da Siena e la Taranta

Prima della psichiatria. Caterina da Siena e la Taranta

Caterina da Siena e l’anoressia ascetica

Caterina da Siena è stata probabilmente la più grande mistica del Medioevo. Canonizzata dalla Chiesa, Patrona d’Italia, la storia di Caterina è l’emblema di quella che è stata definita la “santa anoressia”, la pratica di mortificazione carnale, di controllo alimentare e di digiuno ascetico che ha caratterizzato centinaia di sante, beate e venerabili vissute fino al XX secolo.
Il primo aspetto di grande interesse è che Caterina sentiva la voce di Dio, come Giovanna d’Arco. Nel mondo medievale, sentire la voce divina non era sempre considerato una prova dell’esistenza di Dio, come potremmo pensare. La maggior parte delle giovani adolescenti che sosteneva di ascoltare la voce del Signore non veniva presa sul serio. Quel mondo, però, era intriso di divino. Dio era ovunque, tutti credevano. Era dunque possibile che, dopo accurate verifiche, alcune persone particolarmente devote fossero considerate essere davvero in contatto con Dio. Caterina fu una di queste. Sentire la voce di Dio era una possibilità concreta, lontana dall’esperienza del folle. D’altronde la stessa Bibbia è piena di esempi di profeti in contatto diretto con la voce di Dio.

Ma se Caterina oggi sarebbe considerata schizofrenica, molta attenzione riceverebbe anche per le sue condotte alimentari.
La futura santa, sin da bambina, mostrò segni di autonomia e volontà molto rari per una donna dell’epoca. La madre, Lapa, ebbe più di 20 figli e a quel tempo la donna era riconosciuta a livello sociale principalmente come figura materna e focolare della casa.
Per Caterina, il destino già designato per lei, quello di sposarsi e procreare, era inconcepibile. Il rifiuto del ruolo di genere crebbe di pari passo con il rifiuto della sessualità femminile, legata a doppio filo alla funzione generativa.
L’evento che portò la 12enne Caterina a scegliere l’ascesi fu la morte di parto di una sorella maggiore, Nanna. Il parto come simbolo di morte divenne per Caterina un’immagine persecutoria, tale da intraprendere un percorso di umiliazione e mortificazione corporale, che serviva a ribellarsi tanto al suo ruolo di donna-madre, quanto a quello di corpo fertile.  

Le condotte alimentari di Caterina ci sono state narrate da Raimondo da Capua, suo confessore e primo seguace della santa. Raimondo, infatti, inizialmente aveva il ruolo di controllare Caterina nella sua attività mistica. Con il tempo si convinse della santità della donna, pur osservando in prima persona le pratiche alimentari restrittive a cui si sottoponeva. Caterina finì per cibarsi soltanto di acqua ed erbe, a umiliare il suo corpo con flagellazioni e penitenze continue.

L’aspetto che qui ci interessa è che - seppure lo stesso Raimondo si preoccupasse dei digiuni che avrebbero portato la santa alla morte - quella che oggi sarebbe identificata come anoressia nervosa, all’epoca era considerata una forma di stoicismo che dimostrava sulla pelle l’indole straordinaria del mistico.
Per comprendere le pratiche di Caterina, va capito prima di tutto il mondo in cui viveva. Nella visione teologica medioevale, ma ancor di più in quella specifica di Caterina e delle sante dell’epoca, il modello è quello dell’incarnazione del Cristo.
Cristo si era fatto carne e sanguinando e morendo aveva salvato il mondo. L’unico modo per servirlo erano la sofferenza e la privazione, rappresentate a livello iconografico dalla crocifissione.

La taranta. Una storia di guarigione  

Ora la donna in piedi lotta contro la taranta, immaginando di calpestarla e di ucciderla con il piede che batte la danza. Passo su passo cerca il suo equilibrio spirituale, accerchiando la vertigine su curve musicali sempre più vibranti, fino alla scomparsa dei sensi”.

Molti di voi avranno certamente visto dal vivo o in video la danza salentina della taranta, simbolo di tanti festival estivi che popolano il tacco dello stivale ogni anno.
Una danza ossessiva, ritmata, cadenzata da colpi decisi del piede, vorticosa e frenetica, accompagnata da violini, tamburelli e veli colorati che ondeggiano, appaiono e scompaiono, come folate di vento improvvise.

La taranta è un ballo che ha una storia legata a doppio filo con la malattia mentale. La sua storia la dobbiamo all’antropologo Ernesto De Martino, che alla fine degli anni ‘50 tentò di comprenderne i significati culturali e sociali.
La credenza popolare attribuiva al morso di una tarantola una serie di sintomi presentati soprattutto dalle donne: apatia, catalessi, dolori addominali e deliri.
Una condizione che, in realtà, era dovuta a disturbi isterici o nevrotici, rispetto ai quali la tradizione popolare non aveva categorie cliniche per interpretarli.

Gli effetti del presunto veleno del ragno erano combattuti attraverso la danza. Una danza condivisa socialmente. I musicisti attorniavano la donna che si abbandonava alla musica. Con i piedi batteva sul terreno, nel gesto simbolico di uccidere la causa del malessere. La danza diveniva sempre più frenetica, fino a quando la donna non sveniva ormai sfinita. Al risveglio era rigenerata: il suo equilibrio psichico era ripristinato e poteva tornare alla sua vita quotidiana.

In assenza di altri paradigmi, il simbolo assume una funzione di guarigione. Un simbolo condiviso dall’intera comunità, che dava senso alla malattia mentale, integrandola attraverso il rituale della danza, che aveva un effetto catartico e curativo, ma soprattutto relazionale. La donna “tarantata” non era abbandonata a sé stessa o chiusa in un ospedale psichiatrico. La sua guarigione era responsabilità di tutta la comunità, che offriva la musica e la presenza per riassorbire il “malato” nel sistema di convivenza.

Ciò che oggi sarebbe considerato affare medico, un tempo era una questione sociale.

I quattro esempi narrati in queste newsletter ci raccontano mondi che sembrano ormai lontani, nei quali la malattia mentale non era considerata fonte di stigma, ma modi di organizzare l’esperienza (di malessere, ma anche quella di contatto con il divino) e darle senso all’interno del sistema di valori condivisi dalla cultura e dalla comunità.

Non c’è un modo migliore o peggiore, un presente asettico, ma scientifico, o un passato superstizioso, ma inclusivo. Ci sono modi diversi di leggere il disagio psichico. Certamente il paradigma odierno è più individualista di quanto non fosse in passato, ma anche fondato su prove scientifiche più solide. Uno sguardo alla storia, tuttavia, ci permette di capire in che modo il genere umano ha affrontato il malessere, epoca dopo epoca.

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