Trauma di guerra

Trauma di guerra

Sono passati quasi 7 mesi dall’inizio del conflitto russo-ucraino e, a sentire le ultime dichiarazioni russe, la fine delle ostilità sembra ancora lontana.
Quello che a noi contemporanei può sembrare un atto di forza da parte di una potenza militare contro un territorio più piccolo, in realtà ha origini molto arcaiche.
Desta stupore sapere che il primo nucleo di quello che sarebbe diventato l’impero russo, in epoca medievale, fu la Rus’ di Kiev, con l’attuale capitale ucraina centro propulsivo dell’epopea russa in Europa.
Un Autonomismo ucraino, poi, si sviluppò nei secoli, fino alla Rivoluzione d’ottobre, quando a fianco delle due fazioni principali - i rossi bolscevichi ed i bianchi zaristi - si imposero gli indipendentisti ucraini, che combatterono entrambi gli schieramenti per rivendicare la libertà del proprio popolo. Il conflitto etnico ha dunque precedenti molto radicati che aiutano a comprendere almeno in parte cosa sta succedendo in questi mesi in Ucraina.

In un saggio dello scorso anno, l’antropologo evoluzionista Joseph Heinrich, affronta il tema della guerra nella società occidentale, approfondendone il carattere cognitivo, psicologico e sociale. L’autore individua tre “significati evolutivi” nella guerra: 

  • essa permette di rafforzare i legami interni di appartenenza al gruppo. Un processo che non è molto distante da una delle dinamiche gruppali di base identificate in passato da Wilfred Bion, psicoanalista britannico, incentrata sulla necessità di avere un nemico esterno per rafforzare la coesione del gruppo.
  • rafforza, inoltre, l’adesione alle norme sociali ed il conformismo all’interno del gruppo di riferimento. La condizione di guerra, mettendo a repentaglio la sopravvivenza non solo dei singoli, ma anche del sistema di valori condivisi dal gruppo, porta ad una intransigenza normativa che garantisce un maggior controllo sulla popolazione insidiata da un nemico esterno.
  • infine, approfondisce la devozione religiosa. Questo elemento può sembrare apparentemente anacronistico, influenzati come siamo in Occidente dalla cultura laica e agnostica. In realtà, la devozione religiosa ha sempre avuto un ruolo fondamentale anche nelle guerre moderne. Bastano alcuni esempi. In pochi ricorderanno che, nel paese più ateo e comunista dell’epoca, Stalin, durante l’invasione nazista e nel momento di maggior difficoltà, si appellò al sentimento religioso del suo popolo per guidare la resistenza, ingaggiando attivamente i patriarchi russi nella propaganda per rafforzare il morale di civili e militari. Più di recente, ricordiamo tutti gli appelli alle radici cristiane di Bush figlio nella lotta al terrorismo islamico. E anche nella Russia attualmente coinvolta dal conflitto, non mancano i riferimenti allo scontro di civiltà, inteso anche in termini religiosi. 

Se la psicologia sociale e la gruppoanalisi ci permettono di comprendere i meccanismi attraverso i quali l’identità collettiva si struttura durante le fasi di guerra, l’aspetto più devastante sulla psiche e sui corpi degli individui coinvolti in un conflitto militare riguardano le reazioni all’esperienza traumatica vissuta.

Già in seguito alla Guerra del Vietnam, i clinici identificarono quello che in seguito venne definito Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), una sintomatologia che colpiva i reduci di guerra, alle prese con incubi notturni, pensieri ed immagini intrusive, fobie e processi di evitamento di luoghi e ricordi che erano collegati più o meno direttamente con le esperienze traumatiche vissute durante il conflitto. Le ricerche hanno poi approfondito questi sintomi, riscontrandoli non solo fra i militari, ma anche fra la popolazione civile coinvolta. Il trauma che la popolazione ucraina in primis sta vivendo avrà ricadute a lungo termine, dal momento che il trauma collettivo non colpisce soltanto chi vive sulla propria pelle i bombardamenti e le azioni militari, ma si incista nella memoria condivisa trasmessa fra le generazioni. E’ proprio il modo in cui il trauma viene narrato e tradotto all’interno della comunità che diventa il fulcro dell’intervento della Psicologia, che oltre ad agire sull’emergenza, è chiamata ad utilizzare i propri strumenti per aiutare individui, gruppi e comunità a ripartire, attraverso l’elaborazione della memoria traumatica e la formazione di narrazioni che permettano di sviluppare risorse - emozionali e cognitive - per tornare ad una condizione di stabilità e ricostruire dopo la catastrofe. 

Vi consigliamo la visione di questo video, nel quale psicoterapeuti e psicoanalisti ucraini raccontano la tragedia in corso, non solo vissuta dai loro pazienti e dai civili, ma anche dalle proprie famiglie e da loro in prima persona. 

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