Borderline

Borderline

Daniela è una ragazza di 30 anni che porta in terapia principalmente la sua vita sessuale. Pur provando eccitazione per diversi tipi di uomini, l’unica forma attraverso cui riesce a provare l’orgasmo, sia attraverso la masturbazione, sia attraverso il rapporto con un uomo, è vivendo fantasie di sottomissione, nelle quali l’altro la tratta con brutalità e la punisce.
Daniela si definisce kinky, cioè una persona che riesce a raggiungere il piacere attraverso l’espressione di quelle che un tempo venivano definite parafilie, nel caso specifico pratiche di BDSM, basate sull’uso di strumenti e abbigliamento che accompagnano la relazione fra un master/mistress e uno slave, in altre parole una dinamica di potere che si declina in ruoli di dominazione e sottomissione codificati e sottoposti a regole che hanno la funzione di creare fra i partner un contesto protetto per la manifestazione della violenza simbolica, ma anche fisica.
L’aspetto interessante delle fantasie di Daniela è il collegamento con le sue relazioni primarie. Il maschile per Daniela è sempre stato fonte di scherno e di maltrattamento e la donna sembra provare piacere solo nel momento in cui si sente oggetto di dominio, identificandosi con il sadismo maschile, a patto che ciò possa realizzarsi nella riproduzione mimetica e dunque controllata dell’abuso.
Soltanto rivivendo situazioni di maltrattamento sente di potersi abbandonare al piacere e all’orgasmo, un contesto a lei familiare proprio perché vissuto sin dall’infanzia.
Per Daniela è fondamentale che la conoscenza con gli uomini con cui condivide le pratiche di BDSM sia di breve durata e che il partner cambi frequentemente. Una maggiore permanenza nel rapporto con l’altro evocherebbe emozioni per lei molto più complesse da gestire: vicinanza, dipendenza, intimità, vulnerabilità. Non appena un uomo le esprime un tipo di presenza più affettuosa, Daniela si sente a disagio, esprimendo un terrore fobico per un legame che oltrepassi le fantasie di dominazione.

Il caso sopra accennato può essere interpretato, secondo la definizione tradizionale, come manifestazione di una sessualità borderline.
Otto Kernberg, psicoanalista post-freudiano tutt’ora in vita, elaborò una tripartizione dell’organizzazione psichica che negli anni è diventata punto di riferimento per l’intervento psicoterapeutico.

Kernberg sentì la necessità di andare oltre la distinzione classica fra psicosi e nevrosi, introducendo una terza categoria, quella del borderline, che - come termine indica - rappresenta un’organizzazione psichica al confine fra le altre due categorie.

Per Kernberg esiste un primo stadio evolutivo, attraverso cui la mente “si forma”, la distinzione fra Sé e l’altro. Pensate all’esperienza del neonato che non è ancora in grado di percepire la differenza fra sé e la madre, se non a livelli molto primitivi. La mente psicotica si è fermata a questo primo stadio, confondendo ciò che è reale da ciò che è prodotto della psiche (l’esempio classico sono le allucinazioni percepite come esperienze reali). 

Il secondo stadio evolutivo è quello dell’integrazione fra buono e cattivo, tra vissuti vitali e vissuti distruttivi. A questo stadio resta invischiata la mente borderline, il cui meccanismo fondamentale è la scissione: tanto il Sé del soggetto, quanto gli “oggetti” (cioè gli altri con cui entra in relazione), pur essendo separati tra loro, non appaiono integrati a livello affettivo nell’esperienza borderline. L’aggressività e la tenerezza sono vissuti come aspetti incompatibili fra loro, non integrabili nello stesso individuo. Esistono così un Sé buono (“sono in grado di amare”) e un Sé cattivo (“rovino tutto quello che incontro”) che il soggetto separa nettamente al suo interno. Allo stesso tempo, l’incontro con l’altro può avvenire soltanto a patto che gli aspetti distruttivi siano completamente scissi da quelli amorosi.
Nel caso di Daniela, ad esempio, la sessualità può essere vissuta soltanto entro rapporti brutali e l’orgasmo non deve avere a che fare in alcun modo con l’intimità e la fusionalità amorosa.

Infine, al terzo stadio evolutivo, Kernberg conserva la dinamica classica del conflitto tra pulsione inconscia e difesa, già identificato da Freud. La mente nevrotica separa ciò che è proprio del Sé dalla realtà esterna ed è in grado di integrare buono e cattivo nella stessa figura. I problemi nascono quando un desiderio profondo (ad esempio, una fantasia sessuale) entra in conflitto con le sue difese (ad esempio, il sistema di valori proprio del soggetto). 

Nel tempo, la mente borderline è stata approfondita da altri autori e la dinamica di idealizzazione-svalutazione di sé e dell’altro, è divenuta presto il paradigma centrale per interpretare il comportamento borderline. Tale dinamica diventa particolarmente esplicita nella relazione con il terapeuta, che oscilla, nella rappresentazione interna del paziente, fra l’essere potente e salvifico, figura da cui dipendere in modo totalizzante, all’essere cattivo, sadico, se non del tutto insignificante. L’aspetto importante è che queste due “parti” restino scisse tra loro, pur essendo compresenti, oscillando costantemente nella relazione con l’altro; il terapeuta non è percepito come persona intera, che contiene in ogni momento aspetti negativi e aspetti positivi che non si escludono a vicenda. Vi saranno sedute in cui il terapeuta è vissuto come completamente cattivo o completamente buono, in modo appunto scisso.

Sin qui le origini del concetto e la sua definizione a livello clinico. Tuttavia, negli ultimi decenni, le diagnosi di disturbo borderline sono aumentate a dismisura e più che un’eccezione, l’organizzazione borderline sembra essere sempre più una norma.
Come la nevrosi raccontava il contesto socio-culturale in cui Freud muoveva i suoi primi passi, del quale l’isteria era la sintesi calzante (il conflitto fra il desiderio sessuale inconscio e la sua repressione sociale, in un’epoca fortemente bigotta), la dinamica borderline sembra parlare del contesto socio-culturale odierno, come vedremo più avanti.

Nonostante ciò, le diagnosi psichiatriche continuano a rimandare a categorie individuali della mente. Il soggetto borderline ha una sua storia, i propri traumi, le proprie relazioni disfunzionali, certamente. Ciò che comunque, per la psichiatria soprattutto, è deficitario è quello che avviene nella mente del paziente, mentre i significati relazionali e socio-culturali restano al massimo sullo sfondo.

Eppure tanto le strutture sociali contemporanee, quanto il sistema di valori espresso, sembrano un terreno fertile affinché il funzionamento borderline possa prosperare, come modo di stare in relazione terribilmente funzionale all’adattamento sociale, sino alla sua certificazione definitiva, la diagnosi medico-psichiatrica

 Proviamo a esplorare due capisaldi culturali della nostra epoca: l’individualismo e la polarizzazione

Il paradigma individualista degli ultimi decenni si inscrive in un periodo di forte trasformazione sociale, quella liquidità delle strutture e dei rapporti tanto cara a Bauman, che ha portato alla perdita di riferimenti certi nel mondo del lavoro, delle relazioni di coppia e familiari e nella definizione del Sé. Se il contesto muta costantemente, il compito di trovare il proprio posto nel mondo è delegato totalmente all’individuo, che diventa l’unico vero metro di giudizio e di paragone smaccatamente autoreferenziale.
L’individuo deve bastare a sé stesso, realizzare la sua “vera natura”, che è sua e solo sua, scissa dal rapporto con l’altro, che al massimo è l’oggetto attraverso cui esprimere sé stessi, anziché una persona esterna al Sé con la quale condividere e costruire una relazione e punti d’incontro. Questa esasperazione dell’espressione individuale trova il suo controcanto nella reazione fobica a qualsiasi forma di dipendenza dall’altro. Dipendere dal proprio lavoro è accettabile solo a livello strumentale, ma non emozionale, per questo va cambiato non appena possibile. Dipendere da un partner è ancora più angosciante: evidentemente è il segno di una preoccupante patologia non ancora identificata

La perdita di riferimenti culturali e sociali, la configurazione anomica del nostro tempo, portano a una confusione epistemica, ancor prima che pratica. La confusione porta alla domanda esistenziale più importante: chi sono? Ma l’incertezza è intollerabile, segno della fragilità dell’individuo che deve definire sé stesso in solitudine, e dunque tale confusione dev’essere presto negata. L’individuo corre freneticamente verso la prima etichetta che trova, pur di dare senso a tale identità confusa. L’esempio più lampante è la ricerca spasmodica di diagnosi psichiatriche da parte delle nuove generazioni, che nella definizione di borderline trovano un porto sicuro, la certezza che i propri problemi siano dovuti a una “malattia della mente” (come fosse un agente virale a produrla), più che alla confusione emozionale.

In tale contesto, la cultura kinky è estremamente funzionale se restiamo sul piano sessuale. Così come un tempo una certa cultura romantica forniva strumenti interpretativi per vivere in modo gratificante l’esperienza psicotica del sesso (che prevede la fusionalità con il partner, il ritorno al grembo materno, dunque la perdita di confini psichici fra sé e l’altro), attraverso le immagini poetiche dei “corpi e anime che diventano una cosa sola”, oggi il feticismo offre l’opportunità di vivere in modo socialmente accettabile la scissione fra aggressività e amore, attraverso la definizione di ruoli ben definiti e regolamentati. L’essere dominati o dominatori permette di superare la confusione emozionale che il sesso evoca, conservando anche la propria scissione interna e oggettuale fra il piacere dell’aggressione e il rifiuto dell’intimità.

L’ipotesi è che la sessualità kinky non sia semplicemente la manifestazione di una sessualità liberata dai vincoli sociali tradizionali e conforme ai desideri unici dell’individuo, ma che sia la forma più coerente per riprodurre sul piano sessuale i rapporti socio-culturali tipici della nostra epoca. Nell’immaginario comune, infatti, l’espressione dei propri gusti sessuali è narrata come la più profonda declinazione del proprio essere individuale, come se nel sesso emergesse “la vera essenza” del soggetto, d’altra parte costretta e relegata a maschera sociale negli altri contesti della vita quotidiana. In un contesto culturale privo di riferimenti certi, si può essere qualsiasi cosa si desideri, l’importante è che tale modo di essere sia assunto dall’individuo in modo del tutto autonomo. La cultura kinky, allora, offre il fascino della scoperta delle parti più oscure e innominabili del Sé. Nella vita reale, nessuna persona vorrebbe sperimentare lo stupro, ma nel mondo della feticizzazione delle fantasie erotiche, lo stupro può essere riprodotto, scisso, tuttavia, dall’incontro amoroso complesso e sfaccettato con l’altro. La fantasia dello stupro, infatti, in un rapporto composto anche da altri tipi di affetti, come l’intimità e la tenerezza, creerebbe scompensi e confusione emozionale, perché costringerebbe il soggetto a interrogarsi sulla complessità della violenza, sulla polisemia delle emozioni che si provano, nelle quali buono e cattivo si confondono, e così il senso di colpa, la vergogna, il piacere e il dolore. Dunque, la fantasia erotica può essere riprodotta, solo a patto che la scissione dei ruoli e degli affetti sia conservata.
Questa dinamica, tuttavia, non si limita all’ambito sessuale. La sperimentiamo ogni giorno in tanti contesti, come ad esempio quello lavorativo. L’attuale conformismo invita l’individuo a “fare il lavoro che desidera”, ma allo stesso tempo la struttura economica e sociale non permette questa libera scelta. Così, l’individuo si barcamena fra la ricerca di quello che vuole diventare e l’adattamento a ciò che il contesto offre. Spesso ciò comporta una svalutazione del lavoro che si trova, non coerente con quanto abbiamo desiderato sinora. Lavoro che resta scisso dall’idealizzazione del lavoro che vorremmo fare, magari in futuro. Molti individui risolvono questa scissione cambiando lavoro in modo compulsivo, altri affidano il proprio desiderio professionale all’hobby che forse un giorno potrà diventare professione.
Ciò che qui interessa è sottolineare la scissione fra desiderio e incontro con la realtà come fattore non individuale, ma fortemente connotato culturalmente. La cultura del “diventa ciò che vuoi” è in profonda contraddizione con le possibilità materiali del mondo del lavoro. La contraddizione - come la confusione emozionale nella sessualità - può essere risolta solo separando desiderio e bagno di realtà, due mondi che non si incontrano quasi mai, è che sono la vera espressione “borderline” della nostra epoca.

Il secondo aspetto è la polarizzazione, la dinamica che in modo sempre più radicale definisce i rapporti di appartenenza. Senza entrare troppo nel merito della questione, la scissione fra buono e cattivo è oggi più che mai definita in modo arbitrario, attraverso una riduzione della complessità legittimata dal paradigma medico (per il quale buono e cattivo non hanno a che fare con la morale, quanto con la salute; una salute conformista, soprattutto quando il piano è quello della mente).

Restiamo ancora sul piano dei rapporti amorosi e sessuali. La proliferazione delle diagnosi di “narcisismo patologico” e “dipendenza affettiva” sono una rappresentazione plastica della scissione e polarizzazione fra buono e cattivo, patologizzati entrambi, ma con connotazioni ben diverse. Il narcisista rappresenta tutto il male che c’è nel mondo, il dipendente tutto il bene che non riesce a liberarsi dal male. Se dunque il narcisista è descritto come sostanzialmente “incurabile” da certa psichiatria, il dipendente è recuperabile a patto che accetti di percepire i suoi problemi come individuali, manifestazione di una rottura della propria mente, con tanto di particolareggiate descrizioni del ruolo dei neurotrasmettitori che causano la dipendenza.

A ben vedere, più che di mente borderline, sarebbe più interessante parlare di cultura borderline.
È proprio entro questa cultura che la Psicologia, molto più che la psichiatria interessata a diagnosticare disturbi individuali sempre più differenziati, può intervenire.
Recuperando contesti, spostando il senso dei vissuti e della scissione sul piano delle relazioni con l’altro, anziché su quello della mente individuale, la Psicologia ha strumenti e competenze per lavorare sull’integrazione degli affetti. Ricerca dell’aggressività e negazione dell’intimità esplorati sul piano del senso, invece che su quello della patologia e dell’etichetta diagnostica.
Da questo punto di vista, borderline può diventare un costrutto interpretativo utile a comprendere il rapporto tra la società liquida e l’individuo isolato e obbligato a definire sé stesso per non perdersi definitivamente.

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