Ogni epoca ha costruito sistemi di significati, rituali e forme di condivisione sociale volte ad integrare e dare senso a quella che oggi chiameremmo malattia mentale.
Nel nostro mondo, fortemente incentrato sul paradigma scientifico e medico, molti comportamenti, vissuti ed espressioni psicologiche umane sono descritte e trattate attraverso il concetto di patologia, un’alterazione della condizione di normalità della mente, secondo specifici criteri diagnostici.
Ma è sempre stato così? Come venivano concepite la mente e le sue manifestazioni “estreme”, prima della nascita della moderna psichiatria?
Con un po’ di attenzione storica, è possibile scoprire mondi più o meno arcaici, nei quali ciò che oggi ci apparirebbe come malattia era perfettamente integrato nel sistema di valori dell’epoca. In altre parole, quello che oggi è deviazione dalla norma, era in passato la norma stessa.
L’Iliade: la psicosi del divino
«Non io fui la causa di tale atto ma Zeus e la mia parte e le Erinni che camminano nel buio: furono loro che nell'assemblea gettarono la furiosa ate su di me il giorno che io tolsi arbitrariamente ad Achille la sua preda. Che cosa dunque potevo fare? Gli dèi la vincono sempre» (Iliade, XIX, 86-90).
In questo passo, Agamennone giustifica ad Achille i motivi che lo hanno spinto a portargli via la sua amante. Achille, guidato dalla voce dei suoi dèi, accetta la spiegazione fornita da Agamennone.
Molti di noi hanno avuto a che fare con l’Iliade a scuola. Questo mondo fatto di apparizioni divine, voci e forze sacre che guidano l’azione umana, quasi priva di coscienza e volontà, ci è sempre apparso una licenza poetica arcaica, una finzione letteraria adatta a narrare un mondo lontano. La presenza di voci e visioni divine, tuttavia, era talmente riconosciuta nella cultura dell’Antica Grecia (anche Socrate “sentiva le voci”), che a metà degli anni ‘70 del ‘900, Julian Jaynes, nel suo Il crollo della mente bicamerale, ipotizza che ci fosse qualcosa che andava ben oltre la finzione poetica.
“Chi erano dunque questi dèi che muovevano gli uomini come se fossero automi e che cantavano poesia epica attraverso le loro labbra? Erano voci, le cui parole e le cui istruzioni potevano essere udite dagli eroi dell'Iliade così distintamente come le voci udite da certi pazienti epilettici e schizofrenici o come le voci udite da Giovanna d'Arco”.
Per Jaynes, nella cultura greca era socialmente accettato che l’essere umano sentisse voci interne come fossero pronunciate da agenti divini esterni. Talmente accettato, che lo stesso cervello era un tempo organizzato in senso “bicamerale”: da una parte l’emisfero sinistro, logico e razionale, dall’altro quello destro, creativo, ma anche abitato da presenze divine che con la propria voce guidavano e ordinavano l’agire dell’uomo. Un’organizzazione cerebrale perduta, di cui - secondo Jaynes - resterebbero le tracce nella psicosi schizofrenica odierna.
Nel mondo greco, dunque, “sentire le voci” non era un sintomo di follia. Era la naturale condizione dell’essere umano, entro una cultura popolata di dèi parlanti, in grado di muovere i corpi e le menti.
Saffo: l’ode alla gelosia. Un esempio di attacco di panico?
«Pari agli dèi mi appare lui, quell'uomo
che ti siede davanti e da vicino
ti ascolta: dolce suona la tua voce
e il tuo sorriso
accende il desiderio. E questo il cuore
mi fa scoppiare in petto: se ti guardo
per un istante, non mi esce un solo
filo di voce,
ma la lingua è spezzata, scorre esile
sotto la pelle subito una fiamma,
non vedo più con gli occhi, mi rimbombano
forte le orecchie,
e mi inonda un sudore freddo, un tremito
mi scuote tutta, e sono anche più pallida
dell'erba, e sento che non è lontana
per me la morte.
Ma tutto si sopporta, poiché ...»
In questa bellissima poesia (Ode della gelosia - fr. 31 Voigt), Saffo descrive la manifestazione nel corpo e nella mente della gelosia e del profondo turbamento provato di fronte a una scena di seduzione. Una ragazza del tiaso sta intrattenendo una conversazione con un uomo e Saffo non riesce a reggere la vista di quell’incontro.
L’aspetto più interessante è che, con le categorie interpretative odierne, diremmo che Saffo sta descrivendo un attacco di panico.
Alcuni dei sintomi dell’attacco di panico, secondo il DSM-V, sono questi:
- Palpitazioni, percezione dell’aumento del battito cardiaco o battito cardiaco accelerato. E questo il cuore mi fa scoppiare in petto.
- Sudorazione. E mi inonda un sudore freddo.
- Tremore o agitazione. Un tremito mi scuote tutta.
- Sensazione di soffocamento o mancanza di respiro. Non mi esce un solo filo di voce, ma la lingua è spezzata.
- Sensazione di vertigini, mancanza di stabilità, stordimento o svenimento. Non vedo più con gli occhi, mi rimbombano forte le orecchie.
- Brividi o sensazioni di calore. Sotto la pelle subito una fiamma.
- Paura di morire. E sono anche più pallida dell'erba, e sento che non è lontana per me la morte.
Se oggi uno psichiatra sentisse dalla voce di una sua paziente questa descrizione, valuterebbe l’opportunità di prescrivere un ansiolitico. Nel mondo di Saffo, quel turbinio di sensazioni era la chiara manifestazione della gelosia, un invasamento terribile e sublime da mettere in versi con funzione catartica.