Una paziente mi racconta una serata tra amici; tra questi, un tipo che le piace. Escono in gruppo per diverso tempo. Un tempo sufficiente a che lui proceda nel suo percorso formativo, si laurei in psicologia ed inizi una scuola di specializzazione in psicoterapia. La serata evocata è alla fine del suo primo anno di specializzazione. La paziente mi racconta di averlo visto cambiato. Sempre simpatico e conviviale, oggi si mostra un po’ pungente, molto attento alle parole, pedante, le conversazioni in sua presenza si sviluppano faticosamente tra un “secondo me tu volevi dire” ed un “credo che tu debba fare”: insomma, sta facendo lo psicologo con gli amici - diverso dall’esercitare una funzione psicologica-, sta utilizzando l’asfittico potere del ruolo senza che nessuno lo domandi. L’esito di questa operazione è fortemente caricaturale e comprensibile per chi è in formazione e deve imparare prima cosa dire e poi come tacerlo.
Una mia docente molti anni fa raccontava quanto fosse difficile lavorare in terapia con i terapeuti in formazione. Noi ridevamo perché capivamo che parlava proprio di noi (all’epoca terapeuti in formazione) ed io stessa devo sicuramente delle scuse a più di qualche analista per avere reso tutto più difficile con quell’atteggiamento manierato e autocelebrativo (mi riferisco all’uso di un linguaggio formalizzato per il solo bisogno di marcare un’appartenenza, non per dire qualcosa).
Oggi confronto quelle osservazioni con un’esperienza. Ho lavorato in terapia con terapeuti o psicologi e posso confermare come la fantasia valutativa, l’idea di avere strumenti per stabilire cosa è giusto e cosa è sbagliato, ha fatto largamente parte del lavoro condiviso.
Ci sono molti terapeuti che non mettono mai in dubbio l’idea di sapere come debbano andare le cose della vita e, coerentemente a ciò, le terapie che propongono assumono la forma di training alla saccenza, trasferimenti di questa sapienza da chi sa (il professionista) a chi non sa (il paziente). Quelle lunghe terapie da cui esci convinto di sapere come funzioni e come debba funzionare il mondo mi spaventano, esattamente come mi spaventano l’autoritarismo e la violenza. Preferisco l’immanente e imperfetto guado del dubbio consapevole.
Le pretese circa il “come si vive” assumono la forma di una morale a cui attenersi. Gli psicologi diventano sacerdoti, evangelizzatori del quotidiano. Eppure, la vita, la nostra società, le cose del mondo sono proprio l’esito dello scollamento tra la metafisica del come dovrebbe essere ed il limite di come può essere nella realtà. Nel lavoro terapeutico, forse più specificatamente analitico, è possibile distinguere due modi di procedere: da una parte il tentativo di raggiungere un obiettivo di stato, il più delle volte associato ad una qualche idea di guarigione, dall’altro obiettivi metodologici, intendendo con essi lo sviluppo di competenze a pensare le emozioni in rapporto ai propri contesti di vita. Ma andiamo per gradi. Nella prima ipotesi la definizione di cosa sia guarigione richiede una riflessione. È possibile definire uno standard di salute psicologica (in assenza di un riferimento eziopatogenetico come avviene in medicina) senza confondersi con la morale del tempo? O il rischio è quello di perseguire presunte condizioni di ortodossia emozionale che, in fin dei conti, corrispondono al conformismo? A tal proposito vale sempre la pena ricordare la più grande guarigione della storia: nel 1973 la categoria omosessualità verrà derubricata dal DSM (Manuale Diagnostico e Statistico della Salute Mentale) da parte dell’American Psychiatric Association (APA). Ancora per molto tempo sui testi scientifici comparirà la dicitura “omosessualità egodistonica”, quella condizione in cui una persona omosessuale non accetta il proprio orientamento sessuale. Solo nel 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità decide di depennare l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali. Oggi sappiamo che il problema per le persone omosessuali - e per la società tutta - è l’omofobia.
Nella seconda ipotesi, a mio modo di vedere, una possibilità di affrancarsi dal rischio messo in evidenza da Franco La Cecla nell’introduzione del libro intitolato “Lasciarsi, i rituali dell’abbandono nell’era dei socialnetwork”. La Cecla scrive:
“Mi sarebbe piaciuto sentire il parere di gente che per professione dovrebbe aiutare chi si trova impelagato nei grovigli del tenersi e del lasciarsi. Ho chiesto ad uno di questi (…). Speravo che la psicoanalisi fosse diventata la disciplina del limite e dell’immanenza, ma vedo che essa è invece tentata da tutte le derive trascendenti da cui è ancora attraversata la nostra società. Pazienza, vuol dire che bisogna rifondarla.”
Concordiamo in molti con questa insofferenza alla moralizzazione da parte di professionisti della salute mentale che, invece di aiutare a comprendere la complessità del mondo contemporaneo, si arrampicano su un montarozzo e fanno la predica. Più i fenomeni sociali riguardano categorie marginalizzate (giovani, donne, comunità LGBTQIA+), più il paternalismo si fa evidente.
Il già citato Franco La Cecla conclude l’introduzione dichiarando l’ambizione del suo libro. Ho pensato che corrispondesse, in una qualche misura, all’ambizione del lavoro intellettuale, ed è così che intendo anche la psicoanalisi. La riporto qui in analogia al lavoro terapeutico:
“In poche parole, ed è un tema ambizioso di sicuro, questo libro vuole farci avere un po’ più di simpatia per i guai che ci provochiamo o che accettiamo di provocare.”