Serie Netflix su Dahmer, John Wayne Gacy e Ted Bundy. Trasmissioni a tema su NOVE incentrate su omicidi familiari, stragi fra vicini di casa, rapimenti e abusi.
Canali YouTube di successo, come Elisa Truecrime, Eli in Crimeland o La Mela Avvelenata Fio’.
I contenuti che raccontano nei minimi dettagli le storie di serial killer, assassini, sparizioni accadute nella realtà ormai spopolano e attraggono milioni di spettatori avidi non solo di storie criminali, ma di stili narrativi che mescolano aspetti cruenti a raccomandazioni sulla salute mentale.
Non è raro, infatti, che gli Youtuber introducano i propri video con un disclaimer: “questo video contiene immagini e racconti che potrebbero per voi rappresentare un trigger. Se i temi trattati non fanno per voi, saltate questo video. Prendetevi cura di voi”.
Oltre a ciò, dietro alla mera narrazione degli eventi, chi racconta queste storie propone sempre un’indagine psicologica dei protagonisti: dalle possibili cause che determinano il comportamento criminale, all’incredibile resilienza mostrata da alcuni sopravvissuti.
In questi racconti, il cervello è il protagonista assoluto. Un organo misterioso, avvolto da un alone di oscurità, che sembra procedere seguendo strade che la maggioranza della popolazione non sarebbe in grado di percorrere.
Ci piace pensare che il cervello criminale sia un enigma, perché ci permette di non interrogarci sui motivi socio-culturali e ambientali che concorrono a costruire una cultura della violenza efferata, estrema, oltre i tabù sociali che ci permettono di inorridire di fronte allo smembramento di un cadavere.
Diversi studi sembrano attribuire un effetto positivo alla visione di contenuti true crime. In primo luogo, l’esposizione a contenuti violenti, ma raccontati in modo minuzioso, permetterebbe allo spettatore di percepire un vissuto di controllo. Conoscere come modo per difendersi, ma anche per intervenire nel modo più corretto nel caso in cui fossimo testimoni di crimini violenti.
In secondo luogo, il racconto delle vicende criminali avrebbe un effetto catartico per le vittime sopravvissute o per i parenti delle vittime. Ripercorrere la propria storia traumatica, raccontata con delicatezza, restituirebbe dignità a chi sente di averla persa, e un senso di giustizia che oltrepassa i confini dell’aula di tribunale. Permetterebbe, in altre parole, di dare senso a eventi che appaiono inspiegabili e intollerabili.
Infine, immedesimarsi nelle storie dei sopravvissuti, comprendere come abbiano fatto a salvarsi e superare eventi che traumatizzerebbero il più granitico dei marines, aiuterebbe lo spettatore a sviluppare fiducia nelle possibilità di evitare un evento traumatico, se non proprio a rielaborare i propri traumi pregressi, anche quando non così devastanti.
A fronte di questi aspetti positivi, c’è un elemento che caratterizza l’immaginario collettivo costruito attorno al true crime, che andrebbe quantomeno problematizzato.
Come detto in precedenza, più che la personalità criminale e il suo contesto di appartenenza, il vero protagonista di questi racconti è il cervello. Un cervello talvolta presentato come deficitario sin dalla nascita: i serial killer, secondo alcuni studi, presenterebbero una riduzione nel funzionamento dell’amigdala che è deputata al controllo degli impulsi, dell’aggressività e delle emozioni più arcaiche. Altre volte si sottolinea come la gran parte dei serial killer, nella loro crescita, abbiamo subito numerosi traumi cranici. Una ricorrenza che viene presentata come la possibile soluzione dell’enigma.
Non viene però mai detto che i cervelli dei criminali sono nel 99% dei casi studiati tramite le immagini tomografiche quando sono ormai adulti, dunque nella loro forma e composizione più o meno definitiva.
Il cervello, tuttavia, è l’organo più sociale che abbiamo. La neuroplasticità, soprattutto nella prima infanzia, è massima, e la composizione finale che le immagini ci restituiscono in età adulta, potrebbe essere - e molti ne sono convinti - l’esito del rapporto fra crescita cerebrale ed sperienze traumatiche e fattori ambientali. Insomma, la ricorrenza nei “cervelli criminali” di amigdala ridotta, segni di traumi cranici, più che dovuta a qualche tratto individuale e biologico innato, sembrerebbe raccontarci di contesti di vita devastanti, psicotici, nei quali le relazioni violente rappresentano fattori predittivi del comportamento criminale adulto in modo molto più significativo.
Dahmer veniva sepolto dal patrigno in una fossa con la testa fuori dal suolo, per poi essere picchiato con una spranga di ferro. Gacy veniva umiliato costantemente dal padre perché omosessuale, picchiato con la cinghia a ripetizione. Bundy per anni fu convinto a credere che i suoi nonni fossero in realtà i suoi genitori, e che sua madre fosse sua sorella maggiore.
E anche quando non è possibile risalire a traumi eclatanti, la teoria di Masud Khan sul trauma cumulativo - quell’insieme di piccole esperienze psicotiche e quotidiane vissute nelle relazioni primarie - permette di comprendere l’inevitabile influenza del contesto sullo sviluppo mentale del singolo.
Pensare che vi siano nel mondo cervelli deviati per motivi oscuri, in qualche modo ci tranquillizza. Ci dà l’impressione di poter evitare la violenza estrema e allo stesso tempo ci eccita, spingendoci a ossessionarci per le storie di crimini oltre l’umano.
Poi però avvengono omicidi come quelli di Giulia Cecchettin, nei quali il bravo ragazzo si trasforma in un mostro. Dov’è finito il cervello deviato? Come mai nessuno se n’è mai accorto? Per continuare a tranquillizzarci, i criminologi utilizzano il versante comportamentale del cervello distorto, cioè la diagnosi di narcisismo patologico. Un narcisismo subdolo, che si maschera e manipola, che dunque nasconde i segnali della violenza che è in grado di mettere in atto.
L’analisi psicologica della violenza, però, ci presenta una linea molto più sfumata. La violenza nasce anzitutto da un vissuto recriminatorio, di rivalsa, di possesso dell’altro. Vissuti che viviamo tutti i giorni e contro cui ciascuno di noi lotta quotidianamente. Più che indagare cervelli, allora, è fondamentale comprendere le relazioni e le emozioni che caratterizzano il quotidiano. Se è difficile diventare Dahmer, la cronaca ci dice che non è così impossibile finire come Filippo Turetta. La violenza non è un numero che sfugge alla formula del controllo, ma un modo di stare in relazione, con le sue numerose forme e gli esiti più disparati.