ADHD

ADHD

Da qualche tempo, mi sto interrogando sempre di più sul significato sociale del termine “disturbo”. Oggi, con l’intromissione del linguaggio psichiatrico anche nel contesto del senso comune, il disturbo indica una malattia, dunque una condizione che è patologica e che va “curata” tramite interventi ortopedici, siano essi psicoterapeutici o farmacologici, al fine di ripristinare uno stato di “salute” o di norma. 

Nel linguaggio comunque, tuttavia, “disturbare” significa “infastidire, turbare la quiete altrui”, dunque non indica una malattia, ma un atto sociale che riguarda la relazione con l’altro.

Mai come nella cosiddetta sindrome ADHD (disturbo da deficit di attenzione e da iperattività, secondo la nosografia psichiatrica) - una condizione che è attribuita anche agli adulti, ma che viene diagnosticata principalmente nei bambini - la doppia accezione del termine “disturbo” rivela significati sociali illuminanti.

La scorsa settimana ero sull’autobus, intento a cominciare il celebre romanzo di Cormac McCarthy, La strada, che narra le vicende di un padre e di un figlio intenti a sopravvivere fra le macerie di un mondo post-apocalittico.
Immerso nella lettura, comincio a sentire dei suoni secchi, come schiocchi ripetuti, e all’inizio penso a un qualche tipo di guasto nel motore del mezzo. Il suono, però, diventa sempre più familiare. Mi ricorda un gioco d’infanzia, un gesto che da bambino mi divertiva, ma allo stesso tempo aveva una particolare funzione calmante: schioccare la lingua contro il palato, emettendo un suono secco, attraverso il quale gli adulti riproducevano il rumore degli zoccoli dei cavalli sul selciato.

Mi rendo conto, quindi, che a poca distanza da me c’è un bambino, che schiocca le labbra, comincia a canticchiare, sbatte le mani contro i vetri dell’autobus, emette urla scimmiesche e acute e ride molto.
Attorno a lui, i familiari non lo degnano di uno sguardo. Si rivolge alla mamma, poi alla nonna, ma nessuno gli risponde, premurandosi di tenere gli occhi puntati da un’altra parte (su una rivista, oltre il confine del finestrino, per terra, ovunque, ma non verso il bambino).

Dentro di me monta una forte irritazione verso quel bambino irrequieto, impertinente, che non sa stare al suo posto, buono e calmo come tutti gli altri. Penso immediatamente che debba avere un ADHD, magari non diagnosticato! Monta anche il fastidio per i familiari, che non si degnano di farlo smettere e di rivolgere agli altri passeggeri un cordiale “scusate, il disturbo”. Ma di quale disturbo stiamo parlando?

Mi tornano così alla mente le parole di David Foster Wallace, nel suo saggio Questa è l’acqua, nel quale affronta la distinzione fra i nostri automatismi mentali ed emozionali e quello che lui definisce “scegliere come pensare”.

Mettiamo, per dire, che sia una normale giornata nella vostra vita da adulti: la mattina vi alzate, andate al vostro impegnativo lavoro impiegatizio da laureati, sgobbate per nove o dieci ore e alla fine della giornata siete stanchi, siete stressati e volete solo tornare a casa, fare una bella cenetta, magari rilassarvi un paio d’ore e poi andare a letto presto perché il giorno dopo dovete alzarvi e ripartire daccapo. Ma a quel punto vi ricordate che a casa non c’è niente da mangiare – questa settimana il vostro lavoro impegnativo vi ha impedito di fare la spesa – e così dopo il lavoro vi tocca prendere la macchina e andare al supermercato. A quell’ora escono tutti dal lavoro, c’è un traffico mostruoso e il tragitto richiede molto più del necessario e, quando finalmente arrivate, scoprite che il supermercato è strapieno di gente perché a quell’ora tutti gli altri che come voi lavorano cercano di ficcarsi nei negozi di alimentari, e il supermercato è orribile, illuminato al neon e pervaso da quelle musichette e canzoncine capaci solo di abbrutire, e voi dareste qualsiasi cosa per non essere lì, ma non potete limitarvi a entrare e uscire; vi tocca girare tutti i reparti enormi, iperilluminati e caotici per trovare quello che vi serve, manovrare il carrello scassato in mezzo a tutte le altre persone stanche e trafelate col carrello, e ovviamente ci sono i vecchi di una lentezza glaciale, gli strafatti e i bambini iperattivi che bloccano la corsia e a voi tocca stringere i denti e sforzarvi di chiedere permesso in tono gentile ma poi, quando finalmente avete tutto l’occorrente per la cena, scoprite che non ci sono abbastanza casse aperte anche se è l’ora di punta, e dovete fare una fila chilometrica, il che è assurdo e vi manda in bestia, ma non potete prendervela con la cassiera isterica, oberata com’è quotidianamente da un lavoro così noioso e insensato che tutti noi qui riuniti in questa prestigiosa università nemmeno ce lo immaginiamo… fatto sta che finalmente arriva il vostro turno alla cassa, pagate il vostro cibo, aspettate che una macchinetta autentichi il vostro assegno o la vostra carta di credito e vi sentite augurare «buona giornata» con una voce che è esattamente la voce della morte, dopodiché mettete quelle raccapriccianti buste di plastica sottilissima nell’esasperante carrello dalla ruota impazzita che tira a sinistra, attraversate tutto il parcheggio intasato, pieno di buche e di rifiuti, e cercate di caricare la spesa in macchina in modo che non esca dalle buste rotolando per tutto il bagagliaio lungo il tragitto, in mezzo al traffico lento, congestionato, strapieno di Suv dell’ora di punta, eccetera, eccetera. Ci siamo passati tutti, certo: ma non rientra ancora nella routine di voi laureati, giorno dopo settimana dopo mese dopo anno. Però finirà col rientrarci, insieme a tante altre squallide, fastidiose routine apparentemente inutili…

Ma non è questo il punto. Il punto è che la scelta entra in gioco proprio nelle boiate frustranti e di poco conto come questa. Perché il traffico congestionato, i reparti affollati e le lunghe file alla cassa mi danno il tempo per pensare, e se non decido consapevolmente come pensare e a cosa prestare attenzione, sarò incazzato e giù di corda ogni volta che mi tocca fare la spesa, perché la mia modalità predefinita naturale dà per scontato che situazioni come questa contemplino davvero esclusivamente me. La mia fame, la mia stanchezza, il mio desiderio di tornare a casa, e avrò la netta impressione che tutti gli altri mi intralcino. E chi sono tutti questi che mi intralciano? Guardali là, fanno quasi tutti schifo mentre se ne stanno in fila alla cassa come tanti stupidi pecoroni con l’occhio smorto e niente di umano; e che odiosi poi quei cafoni che parlano forte al cellulare in mezzo alla fila.

Guardate che se scegliete di pensarla così non c’è niente di male, lo facciamo in tanti, solo che pensarla così diventa talmente facile e automatico che non richiede una scelta. Pensarla così è la mia modalità predefinita naturale. È il modo automatico e inconsapevole di affrontare le parti noiose, frustranti e caotiche della mia vita da adulto quando agisco in base alla convinzione automatica e inconsapevole che sono io il centro del mondo, e che sono le mie sensazioni e i miei bisogni immediati a stabilire l’ordine di importanza delle cose. Il fatto è che in frangenti come questo si può pensare in tanti modi diversi. Nel traffico, con tutti i veicoli che mi si piazzano davanti e mi intralciano, non è da escludere che a bordo dei Suv ci sia qualcuno che in passato ha avuto uno spaventoso incidente e ora ha un tale terrore di guidare che il suo analista gli ha ordinato di farsi un Suv mastodontico per sentirsi più sicuro alla guida; o che al volante dell’Hummer che mi ha appena tagliato la strada ci sia un padre che cerca di portare di corsa in ospedale il figlioletto ferito o malato che gli siede accanto, e la sua fretta è maggiore e più legittima della mia: anzi, sono io a intralciarlo. Oppure posso scegliere di prendere mio malgrado in considerazione l’eventualità che tutti gli altri in fila alla cassa del supermercato siano annoiati e frustrati almeno quanto me, e che qualcuno magari abbia una vita nel complesso più difficile, tediosa e sofferta della mia. Vi prego ancora una volta di non pensare che voglia darvi dei consigli morali, o che vi stia dicendo che «dovreste» pensarla così, o che qualcuno si aspetta che lo facciate automaticamente, perché è difficile, richiede forza di volontà e impegno mentale e, se siete come me, certi giorni non ci riuscirete proprio, o semplicemente non ne avrete nessuna voglia. Ma quasi tutti gli altri giorni, se siete abbastanza consapevoli da offrirvi una scelta, potrete scegliere di guardare in modo diverso quella signora grassa con l’occhio smorto e il trucco pesante in fila alla cassa che ha appena sgridato il figlio: forse non è sempre così; forse è stata sveglia tre notti di seguito a stringere la mano al marito che sta morendo di cancro alle ossa. O forse è quella stessa impiegata assunta alla Motorizzazione col minimo salariale che soltanto ieri ha aiutato vostra moglie a risolvere un problema burocratico da incubo facendole una piccola gentilezza di ordine amministrativo. Non è molto verosimile, d’accordo, ma non è nemmeno da escludere: dipende solo da cosa volete prendere in considerazione. Se siete automaticamente certi di sapere cosa sia la realtà e chi e che cosa siano davvero importanti – se volete operare in modalità predefinita – allora anche voi, come me, probabilmente trascurerete tutte le eventualità che non siano inutili o fastidiose. Ma se avrete davvero imparato a prestare attenzione, allora saprete che le alternative non mancano. Avrete davvero la facoltà di affrontare una situazione caotica, chiassosa, lenta, iperconsumistica, trovandola non solo significativa ma sacra, incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a tutte le cose.

Sul portale di uno dei più importanti istituti psicoanalitici italiani, c’è un’intervista a una psichiatra esperta in ADHD.

Alla domanda su quali siano i sintomi del disturbo, si propone il seguente elenco:

Nei bambini piccoli:

Si distraggono molto facilmente:

hanno problemi a concentrarsi

hanno difficoltà a completare anche attività semplici

Sembrano non ascoltare quando si parla con loro, non riescono a stare fermi, né seduti. Fanno rumore, strillano più del normale, disturbano

Sono spesso agitati, corrono, saltano

Si arrampicano ovunque mettendosi in pericolo

Fino ai 12 anni:

Parlano in continuazione

Fischiano e cantano anche in classe

Rispondono impulsivamente senza ascoltare le domande

non aspettano il proprio turno a casa e a scuola 

non riescono a stare bene in un gruppo di lavoro.

E’ molto interessante che l’elenco sintomatologico, sia seguito da un’avvertenza:

Attenzione! Non scambiare il disturbo per pigrizia, irresponsabilità, oppositività o mancanza di collaborazione.

L’elenco dei sintomi proposti è rappresentato da una serie di comportamenti, che a ben vedere sono gli stessi che un tempo - prima che tali comportamenti fossero inquadrati in un disturbo psichiatrico - le maestre riportavano come lamentela ai genitori per parlare dei loro figli “incorreggibili”. “Signora, suo figlio è una vera peste, non sta mai fermo!”.

Parlare in continuazione, non aspettare il proprio turno, non ascoltare quando si parla con loro, non riuscire a stare fermi. Tutti comportamenti che, se letti come sintomi da “curare” non raccontano nulla del vissuto del bambino. Raccontano, piuttosto, del vissuto di chi li osserva o interagisce con loro. Più che un disturbo individuale, rimandano al fastidio di chi è disturbato, di chi non sa come intervenire affinché il bambino dispettoso possa tornare nei ranghi ed essere finalmente quello che il contesto sociale vorrebbe, un “bravo bambino”.

Pensiamoci un attimo. Come si fa a distinguere una scarsa concentrazione da una pigrizia, un’iperattività da una provocazione? L’unico modo per distinguerle è adottare un modello interpretativo differente. Da una parte quello medico e ortopedico: il bimbo va curato. Dall’altra quello psicologico e simbolico: il bimbo sta comunicando all’interno di una relazione sociale. 

Userò qui un’espressione forte, che spero inviti alla riflessione. Se un tempo il bambino pestifero veniva redarguito tramite rimproveri e punizioni, oggi è classificato e diagnosticato come malato, da curare anche mediante l’uso di farmaci molto potenti, che servono principalmente a ridurre i comportamenti “disturbanti”.

Non si tratta di sottovalutare l’aspetto problematico di quei comportamenti, ma di comprenderne il significato relazionale e sociale.

Possiamo scegliere di trattare quei comportamenti come sintomo di un deficit (di attenzione) o di un surplus (di attività) individuale, senza interrogarci su cosa significhino quei comportamenti nel contesto in cui vengono espressi. L’obiettivo è riportare alla norma l’attività del bambino, in modo che possa essere meglio controllato, senza che il contesto scolastico o familiare sia “disturbato” dai suoi continui attacchi alle regole sociali.

Possiamo, d’altra parte, leggere quei comportamenti come indizio del vissuto del bambino, in relazione al contesto scolastico e familiare, dunque come forma per comunicare con l’altro un disagio, una difficoltà, una delusione. Un tipo di lettura che porterebbe a porre domande complesse: chi è quel bambino? con chi è in relazione? cosa significano a livello emozionale i suoi comportamenti e a chi sono rivolti?

Come diceva Wallace, il modo in cui decidiamo di leggere un fenomeno dipende dalle scelte che facciamo. E questa scelta riguarda anche la lettura del comportamento infantile: ADHD e dunque malattia individuale da curare, o comportamento che disturba la quiete dell’altro e dunque significato relazionale, da approfondire e interpretare?

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