Negli ultimi anni ho l’opportunità di confrontarmi nelle università con molti giovani psicologi. Mi occupo di un laboratorio che si svolge durante l’ultimo anno di formazione. Il mandato entro cui mi muovo ha a che vedere con la conoscenza della deontologia e l’uso di tale conoscenza nella futura professione.
Poiché per la psicologia – ed esclusivamente per la psicologia – la relazione tra etica e competenza è strettissima (la relazione è strumento e oggetto di lavoro, questo non vale per le altre professioni ordinistiche nelle quali quasi sempre la relazione è un mezzo), ciò di cui mi occupo è di lavorare con loro per fare bene il proprio mestiere, in sintesi la direi così. Nella formazione il Codice Deontologico, inteso quale strumento di cui si dota la comunità professionale proprio a tale scopo, è il punto di arrivo di un processo che parte dall’analisi delle fantasie sul ruolo psicologico e sulla professione. Questa esperienza mi pone in una posizione privilegiata per osservare come cambia il vento, che aria tira nella cultura psicologica contemporanea, le fissazioni, le risorse, le zone cieche, le possibilità.
Onnipresente tra le parole scelte dai giovani colleghi in formazione per parlare della competenza psicologica c’è – rullo di tamburi - l’empatia, anzi l’Empatia.
Quello che si intende per empatia ce lo dice la sezione blog di Unobravo, ottimo archivio del crocevia tra senso comune e cultura psicologica:
“Quella che si viene a creare tra psicologo e paziente è la relazione empatica per eccellenza. Un rapporto fatto di fiducia, assenza di giudizio ed empatia è il prerequisito per il successo di ogni percorso psicologico, a prescindere da quale sia l’orientamento teorico del professionista (…) L’empatia (citando Rogers) è la principale abilità che uno psicologo e psicoterapeuta dovrebbe avere”.
La letteratura sul tema è sconfinata e sovrappone l’empatia come abilità e l’empatia come modo di essere che “prescinde dall’orientamento teorico”. I confini tra i due mondi sono sfumati, talvolta assenti e si parla dell’una e dell’altra indistintamente. In linea di massima il riferimento all’empatia va quasi sempre inteso come accesso al mondo emotivo del nostro interlocutore. Nel senso comune a questo fenomeno viene associata, se non la bontà, quantomeno la premessa della bontà. Su questo la filosofa Anna Donise nell’introduzione al suo “Critica della ragione empatica” scrive:
“Molti di coloro che si sono cimentati con il tema, soprattutto negli ultimi venti anni, hanno considerato l’empatia come capacità da implementare per migliorare le relazioni intersoggettive o come strumento per combattere egoismo e individualismo; qualcuno è arrivato a definirla come l’unico antidoto contro la crudeltà.”
Eccoci a noi: psicologi empatici, psicologi buoni.
Durante le lezioni in aula, costruite in larga parte su role playing di situazioni cliniche dove gli studenti si mettono nel ruolo di psicologi e clienti, la mission empatica assume la forma del buon samaritano o della crocerossina. Grandi sorrisi accolgono le domande di chi impersona il cliente suggerendo implicitamente: “qui troverai quello di cui hai bisogno: ascolto, amore”.
Abbiamo parlato degli psicologi in formazione quando in aula prendono le parti dello psicologo professionista. Ora cambiamo contesto e immaginiamo che il giovane psicologo si rivolga a uno psicoterapeuta. È lui ad essere paziente.
Anche nello studio di psicoterapia è possibile intercettare l’obbligo empatico prescritto alla psicologia.
Nel lavoro con pazienti psicologi prima o poi ci si confronta con l’attesa che il terapeuta, “a prescindere dall’orientamento teorico” come leggiamo nelle pagine già menzionate, faccia sentire la propria vicinanza emotiva, il proprio calore, assumendo quella postura empatica che promette affetto incondizionato e acritico. Questa richiesta, quando accolta, apre ad uno scenario di impensabilità. Dare incondizionatamente e acriticamente quello di cui l’altro ha bisogno è il modo in cui si rinuncia ad una funzione preziosa del lavoro terapeutico: pensare le emozioni veicolate dalla domanda del paziente.
Mi viene in mente Thea, studentessa di psicologia. MI contatta dopo avere concluso un lavoro terapeutico con un’altra collega. Nel primo incontro sembra mettermi in allerta: dalla collega non è tornata perché, proprio quando lei – Thea - ne aveva più bisogno, ha dimenticato di ricontattarla per darle un appuntamento. Aggiunge dettagli circa dei rimandi “poco teneri” ricevuti nelle sedute precedenti. Quando Thea arriva in studio saluta con una vocina e una postura forzatamente da bimba, come si fa nelle relazioni amorose con il proprio partner, quasi a voler sollecitare in me la cura e la protezione che si offrono ai bambini. Sapevo sarebbe arrivato anche per me, come per la collega, il setaccio dell’empatia ad approvare o meno un mio intervento nei suoi confronti. Nell’ultimo colloquio Thea è arrivata arrabbiata con l’università (di psicologia) perché non le ha procurato – come promesso – un tirocinio conforme alle proprie attese. Questa emozionalità si è poi trasferita nei confronti dei genitori che non l’hanno voluta iscrivere in un’università privata e successivamente su uno zio medico che non le ha fornito la raccomandazione necessaria per il tirocinio desiderato. Thea ha un ottimo curriculum e crede di essere tra le migliori candidate.
La fermo bruscamente – in modo poco tenero – e le chiedo di pensare alla catena di pretese che si inanellavano nel suo discorso, compresa la pretesa che io la ascoltassi mentre esibiva vittimisticamente la propria frustrazione. Thea si sente “rimproverata”.
Condivido con lei che i rimproveri sono l’iniziativa pedagogica – anche discutibile - dei grandi nei confronti dei piccoli e che grande-piccolo è forse il suo modo di organizzare il mondo, infilandosi quasi automaticamente in rapporti in cui chiede dipendenza o, viceversa, dipende. Le propongo dunque di fermarsi a pensare. Thea è uscita dallo studio triste. Non le ho offerto un tirocinio e non ho condiviso empaticamente il suo sentimento di rabbia nei confronti delle cose che non vanno, non indossavo sorrisi di circostanza e non ho pensato di sollevarla dalla fatica della frustrazione che provava. In quell’assenza, in quello “stare senza” per dirla con Keats, Thea forse potrà passare dall’agire furioso della sua pretesa ad un pensiero su ciò che provava.
L’empatia, intesa come vicinanza affettiva, calore, prossimità, è una strada percorsa da molti perché semplifica il lavoro, almeno in apparenza. Chiunque può garantire empatia. La competenza clinica invece no, non è garantita, è costruita faticosamente. È fondata su una conoscenza metodologico-tecnica e su una cultura sufficientemente articolata da poter contestualizzare i problemi incontrati. Solo se il clinico accetta la sfida che questa fatica pone potrà tentare la stessa strada con un’altra persona.