L’altro giorno un paziente in terapia mi ha detto una cosa che suonava più o meno così: “Se a marzo scorso mi avessero detto che avrei passato un anno chiuso in casa, sarei impazzito. E invece un passo alla volta è successo proprio questo. Incredibile quanto siamo capaci di adattarci.”
Era sinceramente sorpreso e la sua esternazione aveva un tono dolceamaro: da una parte, l’apprezzamento della capacità degli individui di modularsi intorno ad accadimenti inattesi mantenendo un certo equilibrio e una certa armonia, dall’altro lo sconcerto di quanto sia facile condurre una persona a vivere in condizioni che impulsivamente e profondamente suonano come inaccettabili.
L’adattamento è un tema molto visitato dalla psicologia, ed è un filone di ricerche e di riflessioni che si è ampiamente arricchito di spunti provenienti dall’etologia, dalla fisiologia, dalla sociologia.
La domanda che mi è uscita fuori seguendo questi pensieri è stata: che rapporto psicologico c’è tra l’effetto Zelig e la rana bollita?
Come forse tutti sapete Zelig è il personaggio, diventato iconico, di un film di Woody Allen. La sua patologia è la tendenza ad assumere progressivamente le sembianze di qualsiasi individuo con cui entri in contatto. Con una parabola paradossale, il film ci mostra il rischio della società di massa, in cui spesso si baratta l’identità personale in cambio di una promessa di appartenenza: l’omologazione - sostenuta dagli effetti delle grandi rivoluzioni di inizio Novecento, come l’industrializzazione, i trasporti, i nuovi mezzi di comunicazione - appare quindi un processo che avviene perlopiù in uno stato di inconsapevolezza, anche se mosso da dinamiche affettive profonde: il desiderio di essere inclusi e riconosciuti, un dispositivo antipanico contro l’angoscia dell’isolamento.
E la rana bollita? E’ una delle storie esemplari più citate nel web (c’è n'è anche una versione video magistralmente recitata da Pierfrancesco Favino). Noam Chomsky, l’autore, l’ha inventata per mostrare i processi di abituazione, che sarebbe un altro modo per dire adattamento passivo: immersi in una data situazione (per la rana, un pentolone d’acqua), se il grado di fastidio/dolore a cui si è sottoposti aumenta per piccoli gradi (l’acqua che si fa via via più calda), si finisce per non opporsi alla costrizione e soccombere (la fine della rana della nostra storia, che muore bollita). Anche in questo esempio c’è una semi-inconsapevolezza nella reazione: non è che non si senta l’aumento del disagio ma la progressività della pressione a cui si è sottoposti non consente di percepirne il pericolo.
Qual è il vantaggio di restare in una situazione che ci danneggia? Il costo dello strappo, per esempio. Il contrapporsi all’ambiente. Il lavoro di sottoporre gli stimoli a cui siamo esposti ad un processo continuo, sottile e intransigente di valutazione.
Questo è il motivo per cui procrastiniamo, ad esempio, delle scelte che intuitivamente sentiamo che non vanno bene per noi; ci accomodiamo, appunto. E spesso, anche in questo caso, il vantaggio secondario che ne ricaviamo è il riconoscimento da parte dell’ambiente circostante, un senso di protezione, di comunione, di condivisione.
Mi sembra quindi che, sul piano affettivo, il luogo dove si incontrano Zelig e la rana bollita di Chomsky è la tendenza a cedere parti del proprio autentico sentire in cambio di un senso di appartenenza ad un collettivo disposto a farci percepire una fraterna e rispecchiante somiglianza.
Durante la ormai lunga storia del lockdown in corso, si è spesso citata come parola magica scacciaguai la resilienza, intesa come la capacità di trasformare creativamente un ostacolo, così da farlo diventare una risorsa. La domanda è stata: come posso far sì che questo evento critico diventi lo spunto per migliorare la mia vita?
Sarà che è passato quasi un anno. Ma già tenere l’acqua tiepida o evitare di farci crescere le strisce rosse sui pantaloni quando incontriamo un carabiniere mi sembra un buon risultato.