Alessandro Barbero, storico e divulgatore divenuto famoso per le sue conferenze diffuse su Youtube, si è interrogato spesso sul rapporto fra la Storia e la Memoria.
A differenza della Storia, che ha il compito di descrivere ed interpretare gli avvenimenti che hanno caratterizzato un dato contesto in un dato momento, la Memoria non sarà mai unitaria, ma sempre divisiva. La Memoria è frutto di ideologie, correzioni, spostamenti, affiliazioni. Non ha bisogno di essere verificata. Che sia divisiva lo dimostra l’incapacità nel nostro Paese, dopo più di 70 anni, di dare un significato condiviso al 25 aprile ed al rapporto fra Fascismo e Resistenza.
In questi giorni il movimento del Black Lives Matter ci sta prepotentemente confrontando con una questione che scopriamo improvvisamente essere ancora irrisolta.
Oltre gli scontri in piazza nelle città statunitensi, la rivolta ha cominciato a superare i confini del continente americano, diventando argomento di discussione e di protesta anche in Europa.
Mentre però negli Stati Uniti la comunità afroamericana e chi la sostiene occupano e si confrontano con la realtà viva delle strade, degli esercizi commerciali e degli edifici pubblici, l’Europa sta riscoprendo il conflitto di un rapporto con un passato che si riteneva ormai debellato.
Così in Belgio si chiede a gran voce la rimozione delle statue del re Leopoldo II, autore di atroci delitti nella colonia congolese a fine ‘800. Nel Regno Unito alcuni vorrebbero abbattere le statue di Oliver Cromwell e di Winston Churchill, cioè dei due maggiori simboli della cultura politica inglese, perché razzisti. Lo stesso sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha annunciato che alcune statue di figure imperialiste potrebbero essere rimosse dalle strade della città.
Nel frattempo, la piattaforma di streaming video della HBO ha rimosso temporaneamente il film Via col vento, con la motivazione che si tratta di “un film del suo tempo e che raffigura alcuni pregiudizi etnici e razziali che erano, disgraziatamente, dati per assodati nella società americana”. La piattaforma, tuttavia, provvederà a rendere nuovamente disponibile il film senza tagli e modifiche perché “sarebbe come sostenere che quei pregiudizi non sono mai esistiti”.
Ma qual è il confine fra il condividere gli scopi di un movimento antirazzista e l’iconoclastia?
L’aggressione o la negazione di un simbolo come possono esserlo una statua o un prodotto culturale, hanno un significato storico preciso quando avvengono in un momento di discontinuità, come a seguito del crollo di un regime. Pensate a cosa dovesse rappresentare per i berlinesi la possibilità di picconare il muro e portarsene a casa un pezzo. Il muro non era soltanto un confine simbolico, ma un oggetto di separazione fisica: abbatterlo era ricongiungersi con il corpo e con la mente, rivedere amici e parenti che non si poteva toccare, ma anche riunirsi simbolicamente sotto l’egida di una sola Nazione.
La devastazione e la richiesta di rimozione di simboli che richiamano epoche passate, per quanto ancora vivi nella memoria collettiva, nel patrimonio culturale e nel conflitto sociale e razziale, sembrano forme ritualizzate di agito emozionale.
“L’agito emozionale è la mortificazione della dimensione simbolica, è la reificazione dell’emozione”[1].
Il sentimento di orrore per le atrocità commesse dal colonialismo occidentale, la rabbia per la condizione di emarginazione che tuttora alcune comunità vivono, la paura per la violenza utilizzata dalla polizia americana, sono emozioni legittime.
L’agito emozionale, tuttavia, non permette di pensare tali emozioni, reificandole, trattandole come oggetti di cui sbarazzarsi.
Una statua può nel corso della storia diventare un simbolo polisemico. L’immagine di Leopoldo II può trasformarsi da simbolo del potere coloniale europeo a memento dei crimini commessi o anche di un sistema sconfitto nel tempo. L’immagine di Churchill è ancora più divisiva: per alcuni protagonista della liberazione dal nazi-fascismo, per altri un sostenitore del razzismo imperiale britannico.
In ogni caso sono simboli di un passato con cui tuttora continuiamo a fare i conti, qualsiasi siano i significati che i diversi gruppi sociali gli attribuiscono. Rimuovere fisicamente una parte di Storia è un processo di reificazione del simbolico.
Il passato viene trattato come una presenza ingombrante che vogliamo eliminare più che elaborare. Anziché pensare le contraddizioni su cui abbiamo costruito le nostre democrazie liberali, si sceglie di farne fuori una parte, in una sorta di amnesia forzata.
Evidentemente qui la statua è solo il pretesto, il simbolo appunto, di una relazione irrisolta con il proprio passato razzista e del sentimento di colpa che la cultura occidentale ancora si porta dietro. Un sentimento di colpa che andrebbe trattato nella sua dimensione simbolica, più che oggettivato nella rimozione di un’effige o di un film degli anni ’30.
[1] L’analisi emozionale del testo, Renzo Carli e Rosa Maria Paniccia, 2004