Violenza verbale in rete: odio dunque sono

Violenza verbale in rete: odio dunque sono

Sono stati recentementi pubblicati i risultati della Mappa dell’Intolleranza in rete, un progetto di Vox – Osservatorio Italiano sui diritti (in collaborazione con l’Universita Statale di Milano, l’Universita di Bari, La Sapienza di Roma e il Dipartimento di sociologia dell’Universita Cattolica di Milano) che ha esaminato e geolocalizzato i tweet con contenuti di odio sui social. Prevedibilmente, il fenomeno è risultato pervasivo e in aumento. Ne riportiamo alcuni dati:

– Xenofobia e razzismo dilagano. Contro i migranti si moltiplicano i tweet intolleranti e discriminatori: il 32% dei tweet negativi rilevati. Odiano due italiani su tre tra coloro che twittano, con picchi nelle grandi città, prevalentemente a nord,Milano in testa

– Si conferma la dilagante misoginia della rete, il 27% dei tweet negativi esprime disprezzo, odio e violenza verbale nei confronti delle donne, con parole chiave che rivelano un infuriare di insulti sessisti

– Aumenta l’antisemitismo, soprattutto in centro Italia, Roma in testa (10% sul totale)

– I musulmani sono tra i principali bersagli degli haters (15% sul totale). Per gli haters, islamismo significa terrorismo. Il fenomeno è diffuso soprattutto nelle città del nord

I restanti dati riguardano la discriminazione violenta nei confronti dei disabili e l’omofobia, che pure segna una deflessione nei risultati rispetto al passato ma non cede veramente il passo.

A commento dell’analisi dei risultati, Federico Faloppa illumina una pista: “Relativamente all’ambiente online, la Mappa dell’Intolleranza 4.0 fornisce strumenti e possibilità di lettura imprescindibili, ormai, da una analisi multi-ambientale dello hate speech. Non parlo solo delle mappe termografiche, collaudate da tempo e in grado di geo localizzare le concentrazioni più alte di linguaggio d’odio. Parlo soprattutto della relazione tra picchi di produzione e circolazione ed eventi offline. Non siamo ancora in grado – e forse è un bene, per non cadere nel determinismo – di ragionare in termini di causa-effetto tra online e offline (un certo picco è stata la risposta a un certo evento, o ha anticipato l’accadere di un certo evento), ma siamo in condizione di interrogarci sugli “sciami” d’odio, e sul loro sviluppo carsico: l’emersione di certo discorso intorno a un evento o alla sua esposizione mediatica, o il consolidamento di un clima d’odio – di cui il linguaggio è certamente una spia considerevole – che determina non una maggiore incidenza del crimine d’odio, ma che accompagna una sua minore stigmatizzazione nel discorso. Siamo cioè in condizione di formulare ipotesi in presenza di dati certi, e di corrispondenze non casuali tra online e offline.”

Da studi ulteriori, deduciamo anche che tra la veemenza del discorso politico che caratterizza questa fase storica e la presenza di violenza online c’è una correlazione positiva. Lo sdaganamento di un certo tipo di linguaggio – accusatorio, violento, semplificato, sensazionalistico – da parte dei politici va di pari passo al sentimento di impunità e di confidenza con cui si utilizzano i messaggi di odio online. Non soltanto, per ovvie ragioni di investitura di responsabilità, essere aggressivi in rete è più facile che esserlo de visu, ma in più oggi sembra del tutto collassato lo spazio intermedio della riflessione, sembra urgente e necessario esprimere la propria opinione, esserci, commentare subito.

Spostandoci, di poco, dal vertice di osservazione della ricerca, soffermiamoci un attimo sul caso della modella e influencer Stella Manente, alla ribalta in questi giorni perché, nell’impossibilità di prendere un treno per la folla del Gay Pride di Milano, ha gridato in diretta Instagram: «Cioé io sto perdendo il treno in mezzo a questa massa di ignoranti, andate tutti a morire ca**o. Perché non esiste più Hitler? Sarebbe dovuto esistere Hitler. Tu guarda che ammasso di gente ignorante che sta bloccando la strada. Io veramente vorrei capire la polizia dove ca**o è, a farsi le seg*e perché non ha un ca**o da fare, cioè una vergogna guarda…».

Anche in questo spaccato troviamo la confidenza (nel duplice senso di essere comodi e di avere fiducia in un una modalità di comportamento) con una totale mancanza di filtri comunicativi. Un certo tipo di televisione e, con smaccata evidenza, la rete hanno rafforzato l’idea che la comunicazione estemporanea, reattiva, senza riflessione, sia segno di autenticità e di aderenza all’istinto, e per ciò stesso encomiabile, come a sottintendere  che “dire quello che si pensa” corrisponda a “fare (dire) bene”.

L’equivalenza tra lo sfogo indiscriminato e la libertà di pensiero/parola marca un crinale molto scivoloso. Dalla cultura del discorso psicologico e filosofico sappiamo che esiste uno spazio intermedio di assenza, un vuoto, in cui è salutare passare, per depositare le reazioni più immediatamente prossime agli stimoli e riflettere. Che non significa perdersi in inutili elucubrazioni mentali, ma abitare uno spazio più ampio di confronto, di pensiero, di approfondimento di conoscenze, di immaginazione di scenari più vasti, che prevedono la possibilità di soppesare cause e conseguenze delle azioni (le parole sono, anche, azioni). È facile comprendere, ad esempio, che molto spesso i comportamenti reattivi sono colmi di sentimenti indigeriti che non hanno una relazione diretta con gli stimoli che incontriamo e che spesso utilizziamo un avvenimento come pretesto per liberare frustrazioni, rabbie, insoddisfazioni covate altrove. O comprendere che spesso le parole sgorgano da pregiudizi collettivi a cui non si è dedicato neanche un pensiero autenticamente personale, perché comunque anche l’aggressività cerca consenso e funziona su meccanismi di adesione a un gruppo ideale con i cui valori identificarsi. O, ancora, che proporsi aggressivamente è una scintilla quasi scontata per innescare un’escalation di reazioni via via più aspre, impedendo di fatto ogni possibilità di incontro e di dialogo in favore della vertigine di uno scadente esercizio di potere.

La conseguenza più diretta del linguaggio dell’odio è soffocare ancora di più il tempo e lo spazio della riflessione. E, di conseguenza, soffocare ancora di più il tempo e lo spazio per esercitare una vera libertà. Perché il linguaggio è in una relazione circolare di derivazione e matrice della visione del mondo e la visione del mondo condiziona pervasivamente ogni esperienza che facciamo.

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