Da fuori il quadro sembra chiaro: se una persona viene maltrattata all’interno di una relazione, dovrebbe fuggire via più velocemente che può, chiedere aiuto, denunciare il maltrattante. La notizia che la maggior parte delle violenze avviene in contesti familiari, che molto spesso chi minaccia, picchia o abusa è il partner (o qualcuno che lo è stato) è un dato drammaticamente in contrasto con la limpidezza del ragionamento logico. Facendo un passo più in là della naturale indignazione che questa evidenza suscita, dovremmo quindi dedicare a questi dati una riflessione più ampia e più profonda.
Per investigare un fenomeno possiamo provare ad osservarlo da una prospettiva culturale e anche da una prospettiva soggettiva.
E’, per esempio, accertato che i comportamenti di violenza e abuso avvengano con più frequenza in contesti degradati. Fattori di carattere sociale che aumentano il rischio di essere vittime di una violenza all’interno di una relazione sono la povertà, una bassa scolarizzazione, essere giovani, essere donne, avere una dipendenza da sostanze o da alcol. Per l’aggressore i fattori di rischio sono, quasi specularmente, basso reddito, dipendenza da sostanze, scarsa riuscita lavorativa, essere giovani, essere uomini.
Se aggiungiamo a questo profilo piuttosto anonimo i risultati di ricerche che hanno studiato le caratteristiche psicologiche che si segnalano negli attori di relazioni violente, il quadro si fa molto più complesso: innanzitutto, perché una relazione che diventa violenta nasce praticamente sempre da una relazione d’amore. E della relazione d’amore continua ad avere alcune caratteristiche anche quando il quadro si sporca.
È interessante riscontrare che molte persone considerano normali comportamenti che spesso sono preludio di una degenerazione in senso violento della relazione. Ad esempio la gelosia e il controllo.
Quello che spesso accade in relazioni compromesse è che si strutturi (man mano, ma anche inesorabilmente) una dinamica sbilanciata sul potere di una persona sull’altra, in cui la reciprocità dei rispettivi diritti e doveri è drammaticamente disconfermata.
Il maltrattante mette in atto comportamenti che minano profondamente il senso di autostima della vittima. Insinuazioni sul vero valore della persona, sulla liceità dei suoi comportamenti, sulla sua capacità di giudizio e di azione, assaltano progressivamente l’universo intimo e relazionale dell’altro. Chi è vittima di una relazione maltrattante spesso si ritrova con le vie d’accesso al resto del mondo penosamente recise. La relazione, che all’inizio poteva essere piacevolmente esclusiva, diventa via via una cella d’isolamento.
È stato studiato che chi è vittima di una relazione violenta spesso ha uno “stile di attaccamento” timoroso o ambivalente. Questo vuol dire che può aver sperimentato relazioni precoci in cui il confine tra la cura e l’incuria non è stato chiaro. Se ci si confronta con modelli ambigui rispetto alla disponibilità di fornire amore e rassicurazione, può essere poi più difficile saper distinguere una relazione sana da una che non lo è. Si può sviluppare, in questi casi, una dipendenza affettiva dal proprio partner, che è sostenuta da una mancanza di autostima e autonomia, da angosce profonde legate al fantasma dell’abbandono, dalla difficoltà a distinguere il desiderio dal bisogno, da un profondo senso di vuoto e da una tendenza a idealizzare la funzione della relazione nell’ottenimento della propria felicità.
In una relazione violenta anche la lettura degli avvenimenti si compromette. La vittima, che è già sottoposta a un processo di continua disconferma del proprio valore, può impiegare molta energia (e molto tempo) nel tentativo di entrare nell’universo di significazione dell’altro: si arrovella lungamente nel cercare una giustificazione alla violenza. Che può essere il dubbio di averlo provocato, o che l’altro fosse, per ragioni estranee al rapporto (lavoro, denaro, famiglia), in un momento troppo difficile.
Dalla parte del maltrattante, la tendenza al controllo e all’asservimento dell’altro può avere anche matrici culturali (ad esempio una credenza gretta nei ruoli di generi, il maschio dominante e la femmina passiva) ma sul piano psicologico si rivelano spesso difficoltà a controllare gli impulsi, ostilità, depressione, capacità relazionali compromesse, a volte essere stati a propria volta oggetto di relazioni precoci maltrattanti. La sopraffazione è un esercizio che si reitera e si struttura in maglie sempre più strette, e che si inserisce in un paradigma di interpretazione della realtà in cui il maltrattante può anche riuscire a giustificarsi.
Quello che si crea è una situazione di profondo invischiamento e di continua manipolazione del legame, in cui le vittime possono sperimentare, accanto all’aggressione e alla violenza, anche momenti di tenerezza e amore. Non è un lavoro semplice quello di guardare la relazione da una prospettiva più ampia e decretarne la disfunzionalità, la distruttività. A volte ci si arriva per precipizi (un episodio particolarmente violento) a volte ci si arriva per stanchezza. Spesso chiedendo aiuto, anche se è così difficile chiedere aiuto, perché fare entrare un testimone all’interno della relazione violenta, in quel privatissimo spazio in cui la violenza è stata molte volte già assolta, vuol dire essere disposti ad affrontare il distacco. E, che lo si creda o no, spesso è il passo più arduo.