Brutalità poliziesca ed effetto Lucifero

Brutalità poliziesca ed effetto Lucifero

“Io sono un’ingenua, mi ricordo che i miei pensieri erano di questo tipo: questa è la polizia, ci dovrebbe proteggere”. 

Queste parole (pronunciate da Marina Pellis Spaccini, pacifista e vittima innocente delle violente cariche della polizia durante il G8 di Genova del 2001) mi riecheggiano nella mente da qualche ora, mentre leggo la notizia dell’agghiacciante omicidio di Minneapolis da parte di un operatore delle forze dell’ordine, reo di aver soffocato l’afro-americano George Floyd, con un ginocchio piantato sul collo della vittima che implora aiuto e urla di non riuscire a respirare.

Il sentimento di sconcerto che attraversa una persona che subisce violenza dalle stesse autorità che dovrebbero garantire la sua protezione lascia segni indelebili, prima di tutto di carattere psicologico e morale. Per alcuni rappresenta una vera e propria perdita dell’innocenza.

La prima domanda che ci si pone di fronte a scene efferate come quella di Minneapolis è perché la polizia agisca in alcuni casi in modo così brutale. L’aggettivo non è casuale. Il fenomeno della violenza da parte delle forze dell’ordine è talmente ampio che è stata coniata un’espressione ad hoc, quella appunto di brutalità poliziesca, indicando la serie di comportamenti connotati da repressione, abuso di potere, corruzione, abusi sessuali, uso eccessivo della forza, profilo razziale e intimidazione attuati dalle forze di polizia. 

La risposta che viene data più frequentemente dai media, dalle stesse forze dell’ordine e da una parte dell’opinione pubblica è che l’abuso della forza sia dovuto all’azione di “poche mele marce” da estirpare da un corpo considerato in linea generale sano ed efficiente. La violenza è una proprietà più o meno consapevole del singolo poliziotto che si discosta dall’orientamento generale del corpo di polizia e dal suo sistema di regole. 

Tale visione individualista si concentra sui caratteri psicologici del singolo, sulle sue attitudini, sulla capacità di tollerare lo stress, sulle strategie di coping individuali. Un modello che può certamente indicarci alcuni fattori, ma che non spiega con completezza il fenomeno della brutalità poliziesca. L’impressione è quella di avere a che fare con un problema più ampio, di tipo culturale più che meramente individuale.

Seppur datato (risale al 1971), il celebre esperimento di Philip Zimbardo nel carcere fittizio della Stanford University, che portò alla teorizzazione dell’effetto Lucifero, continua ad essere utile per comprendere in che modo l’uso della violenza possa diventare normativo, anziché eccezionale, in alcuni contesti, e come esso oltrepassi la “predisposizione” dei singoli individui. L’esperimento consisteva nel suddividere in due gruppi i 24 partecipanti, selezionati accuratamente fra gli studenti dell’università attraverso test psicologici per escludere quelli con problemi psichici, abuso di droghe e condotte criminali pregresse. 12 volontari dovevano interpretare il ruolo delle guardie e gli altri 12 vestivano i panni dei prigionieri. L’esperimento sarebbe dovuto durare 14 giorni, ma venne interrotto dopo soltanto 6 giorni a causa degli episodi di violenza che si verificarono. Dopo appena due giorni i “detenuti” cominciarono a manifestare sintomi di insofferenza, a protestare per la propria condizione, mentre i “secondini” cominciarono a reagire in modo sempre più violento, sia dal punto di vista fisico che psicologico. I detenuti furono gradualmente costretti a cantare canzoncine, a defecare in secchi e a pulire a mani nude le latrine. Un tentativo di evasione dei prigionieri, che mostravano segni di dissociazione e disagio psichico sempre più evidenti, fu represso in modo brutale dalle guardie, che assumevano atteggiamenti sempre più sadici. A quel punto il gruppo di ricerca di Zimbardo fu costretto ad interrompere l’esperimento.

L’esperimento servì a Zimbardo per dimostrare come l’ambiente e le istituzioni influenzino direttamente il comportamento del singolo individuo, a prescindere dalle sue caratteristiche personali. Il comportamento violento è allora funzione del contesto, del ruolo ricoperto in esso e del sistema di regole implicite. Come diceva lo stesso Zimbardo, “il comportamento umano è sempre soggetto a forze situazionali, è necessario ammettere sia il potere delle situazioni, sia l’impalcatura comportamentale fornita dal Sistema [di appartenenza]”.

E’ allora necessario cominciare ad interrogarsi su quella paradossale cultura della devianza delle forze dell’ordine, che ha prima di tutto caratteristiche contestuali. Coerentemente con questa premessa, si può constatare che nel contesto americano prevale la violenza di tipo razziale, che connota la storia degli Stati Uniti ancor prima che la storia delle sue forze di polizia. Fra il 2017 ed il 2018 la polizia americana ha commesso ben 2.311 omicidi. Il tasso di omicidi di afroamericani e latinos è stato tre volte superiore a quello dei bianchi. Nel 40% dei casi, le vittime erano completamente disarmate e nella maggioranza la violenza non si è  tradotta in indagini, sospensioni o condanne in tribunale per gli agenti. Il sistema li protegge.

In Italia, invece, coerentemente con la cultura politica e sociale che ha partorito lo stragismo e la strategia della tensione, la violenza poliziesca è stata prima di tutto di carattere ideologico e sociale. Ci riferiamo qui a quel lungo elenco di violenze che parte dalle radici storiche della morte “accidentale” dell’anarchico Pinelli, fino a Stefano Cucchi, alle torture di Bolzaneto ed alla macelleria messicana della scuola Diaz nel corso del G8 di Genova. 

Qualsiasi storico competente si rifiuterebbe di descrivere il Nazismo come l’opera di un gruppo ristretto di folli saliti al potere. Le categorie interpretative e discriminatorie di cui l’Olocausto divenne espressione atroce, furono partorite in seno a quella stessa cultura occidentale che, a giochi fatti, ripudiò il Nazismo come sua deviazione depravata perché non poteva tollerare di aver contribuito a generarla. Allo stesso tempo l’analisi psicologica intesa come indagine dei repertori culturali condivisi nei contesti di appartenenza porta ben oltre la semplice identificazione di “mele marce” e delle reazioni individuali, focalizzandosi sui sistemi di appartenenza e sui processi di legittimazione sociale che danno corpo alla violenza. In fondo, Zimbardo lo aveva già compreso 50 anni fa.

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