Acting out. L’inconveniente di restare senza parole

Acting out. L’inconveniente di restare senza parole

Nella sesta stagione di Orange is the new black, serie tv Netflix ambientata in un penitenziario femminile, uno dei personaggi più drammatici è quello di Artesian McCullough, una poliziotta che presenta tutti i sintomi del disturbo post-traumatico da stress. Artesian è una delle guardie carcerarie che vengono prese in ostaggio nel corso della rivolta del penitenziario di Litchfield, seviziata ed umiliata dalle detenute, ormai padrone del carcere. Una volta rientrata la rivolta, vediamo in più occasioni Artesian entrare di soppiatto nei bagni della struttura, abbassarsi i pantaloni, sedersi sul water, accendersi una sigaretta e tirare qualche boccata. Giunta a metà sigaretta, la spegne direttamente sulla coscia. Artesian è piena di bruciature sulle gambe. Scopriremo che per lei quello è l’unico modo per gestire i sentimenti di rabbia ed odio provati per le detenute che l’hanno umiliata. 

Quando si parla di agito emozionale, il disorientamento è fisiologico. Come è possibile “agire” un’emozione? Le emozioni si provano, o al massimo si comunicano. Ma cosa significa esprimere i propri vissuti attraverso l’azione?

Abbiamo già parlato di agito emozionale (o acting out) in relazione ai recenti avvenimenti sulle statue di Winston Churchill. Il conflitto simbolico che riguarda la memoria dello statista inglese, reo di aver incarnato il razzismo dell’impero britannico, può essere espresso in due forme: attraverso la discussione pubblica ed il confronto; oppure attraverso la rimozione diretta e forzata della statua, magari nel bel mezzo di una rivolta di piazza. 

Nel primo caso siamo sul piano dell’elaborazione del conflitto attraverso la dimensione simbolica del linguaggio, mentre nel secondo caso siamo di fronte ad una forma collettiva di acting out. 

Il concetto di acting out ha una storia tortuosa, che racconta, almeno all’inizio, più degli psicoanalisti che dei loro pazienti. In origine, infatti, esso rappresentava tutte quelle azioni che il paziente compiva al di fuori (out) della relazione terapeutica, ma che erano dovute, secondo l’interpretazione dell’analista, ad emozioni provate nei confronti dell’analista stesso. Ad esempio, un paziente arrabbiato con il terapeuta che, tornato a casa, litiga con la moglie.

Nel corso del tempo, gli stessi psicoanalisti si sono resi conto del narcisismo contenuto in questa visione. Tutto è ricondotto alla relazione terapeutica, mentre il mondo esterno sembra essere solo un riflesso. Con il tempo, l’acting out ha cominciato ad assumere un significato più ampio: qualsiasi tipo di espressione di un conflitto interno attraverso l’azione, anziché attraverso il canale verbale. Per Lacan, l’agito emozionale non è molto distante dall’episodio psicotico. Come nella psicosi, infatti, in gioco ci sono i due livelli di elaborazione del vissuto emotivo: mediante il registro simbolico o nell’ordine della realtà. Quando l’emozione si agisce, “ciò che è precluso al simbolico, torna nel reale”. 

Ognuno di noi sperimenta nella propria vita forme di agito emozionale. Dai casi più estremi di autolesionismo, come nell’esempio di Artesian, a situazioni più quotidiane. Pensate a chi “beve per dimenticare”, oppure a quelle coppie che “risolvono” un litigio facendo sesso. L’agito non è di per sé patologico, ma è sempre la mortificazione della dimensione simbolica. 

Ci sono poi quei casi in cui la parola stessa viene trattata come fosse una cosa tangibile, evacuata come un oggetto da lanciare contro il proprio interlocutore. Un uomo alla guida che inveisce violentemente contro un altro guidatore, reo di avergli tagliato la strada. La pletora di insulti che sembrano acquistare concretezza nel crescendo parossistico, segna la rottura della funzione simbolica del linguaggio: la parola diventa sfogo diretto dell’emozione, un’arma da scagliare contro l’altro. In sintesi, la parola diviene agito.

Questa esperienza dell’uso agito del linguaggio la conosciamo bene e la vediamo tutti i giorni nel contesto dei social network. Ciascuno di noi è incappato più volte in un commento livoroso, svalutante, se non proprio denigrante, in una discussione su Facebook. La parola serve in questo caso come mezzo per la scarica emozionale, più che per la comunicazione sociale. L’acting out qui passa soprattutto per l’atto del pubblicare il contenuto: si rende pubblico con l’intento di liberarsi di un’emozione spiacevole, oppure mossi da una fantasia inconscia distruttiva. A farne le spese è sempre la relazione, svilita a schermo (la parola non è casuale) su cui proiettare le proprie frustrazioni. Assoggettando la relazione sociale ai nostri istinti più primitivi, perdiamo il valore della dimensione simbolica del linguaggio: dare senso al mondo e condividerlo con gli altri. 

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