Quel giorno, uno dei tanti dei suoi felici dieci anni, uscito da scuola sentì che l’abbraccio condiviso con il padre non era più soddisfacente come quelli precedenti. Forse meno tenero, forse più distaccato, forse l’inizio di un modo diverso di volersi bene tra loro: un padre ed un figlio, sempre meno bimbo e più uomo. È quello, per Sergio, l’evento simbolicamente rappresentativo di un passaggio significativo nella qualità della relazione con il padre. Qualcosa che lui associa all’essere cresciuto, “svezzato”, mi dice. Oggi ha un ricordo nostalgico e tenero del prima-di-quel-momento, anni di coccole spudorate, senza remore, dove gli abbracci erano grandi e accoglienti. Nel raccontare, ricorda anche un episodio verificatosi in quel periodo: aveva sempre dieci anni ed aveva un fratello più piccolo di qualche anno. Scuola e casa erano distanti poche centinaia di metri. Da alcuni mesi si era strutturata l’abitudine di attendere il fratello piccolo all’uscita da scuola dello stesso plesso e tornare a casa insieme. Era una grande responsabilità che aveva. Gli dicevano che ormai lui era un ometto e che avrebbe saputo come tornare a casa, e così fu per diverso tempo. Poi un giorno il blackout. Non si ricordava più nulla. Sergio ed il fratellino girovagavano confusi nelle strade del quartiere fino a quando, come per caso, non incrociarono il portone di casa.
Donato, invece, la questione la porta così: entra in studio e si precipita in un “Ciao, ti do del tu!”. Si accomoda sul divano occupando tutto lo spazio a disposizione, si siede al centro del divano, gambe e braccia larghe. Questa postura è talmente diffusa che ha guadagnato il diritto ad una parola sull’Oxford Dictionaries: manspreading, letteralmente “uomo che si allarga”. La prima volta venne usata nel 2014, negli Stati Uniti, quando la Metropolitan Transportation Authority (MTA) di New York avviò, tramite alcuni cartelli, una campagna di sensibilizzazione, invitando i passeggeri ad assumere una postura rispettosa in metro, bus e treni, senza intrudere nello spazio altrui. In pochi minuti Donato puntualizza che lui se la cava da solo, non ha bisogno di una psicoterapia – lo dice ad una psicoterapeuta in uno studio di psicoterapia- , è venuto solo per una chiacchierata, ha solo qualche attacchetto di panico, qualche volta non dorme, non ha voglia di vedere nessuno, odia tutti ma alla fine sta alla grande, è un leone (come quello tatuato sul petto).
Ivano, che sembra più a suo agio con l’idea di essere in uno studio di psicoterapia, racconta di quanto sia spaventato dal viaggio che sta per affrontare. Quindici uomini insieme a Cuba per un addio al celibato. Di cosa ha paura? Mi racconta di essere l’unico fidanzato nel gruppo (tranne il futuro sposo) e teme che non condividere la comune voglia di andare a rimorchiare cubane lo renda oggetto di bullismo. Lui, come decine di altri uomini, racconta delle chat degli orrori (quella del calcetto, quella del lavoro, quella di classe, quella della squadra del cuore), dove il cameratismo - la forma di omosocialità più diffusa tra gli uomini eterocis – si manifesta in tutta la sua chiassosa fragile pomposità.
Poi c’è Lorenzo. Mi diceva che i giorni in cui non aveva voglia di uscire la sera a fare baldoria, puntualmente il padre si presentava in camera allarmato: “Ma stai bene? Se ci sono problemi non ti lasciare andare, trovati una mignottella e non ci pensare”.
Le persone di cui vi ho parlato sono tutti uomini eterocis tra i 25 e i 35 anni e che, in quanto tali, devono confrontarsi con il mito della virilità, una rappresentazione dei caratteri del genere maschile “inventata” ma il più delle volte trattata come “naturale”: forza, coraggio, determinazione, prevalenza del logos sull’affettività, stabilità, attività, padronanza di sé, onore, attitudine al comando. L’idea che la natura avesse forgiato gli uomini come esseri più forti non è nuova - una di quelle tradizioni inventate di cui parla Hobsbawm -, ma venne a riaffermarsi in un certo periodo storico, proprio quando stava per essere contestata e si parlava di pericolosa femminilizzazione della società. Tali virtù, apparentemente naturali, divennero “divisa nazionale” (ancora oggi sentiamo dire “Italians do it better”), ci dice lo storico Sandro Bellassai, la sua esacerbazione è diventata il pilastro retorico delle culture nazionaliste, imperialiste e razziste.
La nota difficoltà degli uomini a parlare con gli uomini di emozioni, di presentarsi come fragili, imperfetti, mancanti, di vivere l’innamoramento come un’infezione da curare perché detronizzante è qualcosa che diviene oggetto del lavoro terapeutico. Fin da bambini gli uomini sono educati ad una massiccia inibizione emozionale. La rinuncia a quest’area dell’esperienza umana impoverisce in modo disarmante gli uomini che non hanno trovato nella ribellione una forma di liberazione. La complessità risiede nel proposito impossibile: non provare emozioni o provarne solo alcune. Continuiamo sempre a provare emozioni, per quanto possano essere tenaci i nostri sforzi inibitori. Ciò che sperimentiamo, piuttosto, è il vissuto di delegittimazione.
Sergio che rapidamente associa il diventare uomo con il perdere la reciprocità affettiva con il padre, Donato che non può parlare di come si sente con nessuno ma che lascia parlare il corpo con i suoi sintomi, Ivano che ha paura della relazione con i suoi congeneri perché obbliganti a certi comportamenti sociali che non vuole assumere, Lorenzo che deve scegliere se vivere la propria vita liberamente o rassicurare il padre sulla sua capacità di averlo cresciuto “vero uomo”: ma quanto ci costa la virilità?
Il costo della virilità è anche il titolo di un bellissimo libro di Bersani Franceschetti e Peytavin che partono dai dati per fare alcune riflessioni. Gli uomini sono i responsabili della maggior parte dei comportamenti antisociali (dati Istat¹), questi sono l’espressione radicale e malamente adattata al contesto dei comportamenti virili. “In totale, stimiamo a 98,78 miliardi di euro all’anno il costo dei comportamenti virili sull’economia italiana. Equivale al 5% del Pil italiano nel 2019. La fine dei comportamenti devianti indotti dall’esaltazione della brutalità nella cultura italiana avrebbe un impatto significativo sulla ricchezza nazionale.”
Il costo – non solo economico - è alto, troppo alto, per la nazione, per le comunità e le soggettività molteplici che la compongono.
¹Istat. Delitti, imputati e vittime dei reati. La criminalità in Italia attraverso una lettura integrata delle fonti sulla giustizia,2020. Roma: Istituto Nazionale di Statistica, 2020.